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Uno scritto a caso

LA VENDETTA DI MASO
[scritto] Questa volta il terribile killer Maso,viene resuscitato dal figlio del folle scienziato Zakor
giorgio salesi
29.09.2008

TRE POESIE

 

LA VITA IN GIOCO

 

Un asso è solo come un cavaliere

dentro ad un’imboscata.

Le mani dell’avversario mischiano la sorte

il destino a turno fa la sua parte.

Ricevo i tre doni, li afferro,

come si tiene in su qual che di sacro,

e poi o raggelo e resto macro

o mi sorge criptata la gioia;

 

In fondo al campo sta in disparte il re,

sa bene la battaglia molto accesa.

L’insidia è pronta, la tattica ordita

vive dentro il disegno di stratega

che compi ad ogni movimento avverso.

Un attimo hai vinto, un altro perso.

Il sillogismo del da farsi rima

con la massima visione ch’hai dell’altro.

Chi lo capisce è scaltro

e porterà vittoria a proprie schiere

se accerchia con regina, torre e alfiere.

 

Così la vita, perché tu la curi,

cade vittima dei colpi di fortuna

o, se ci credi, aderisce al sogno

che in qualche parte dell’immenso aduna

il Semprevivo. Niente può sfuggire

a questo gioco verso l’imbrunire

che ci darà della partita il segno

e cambierà ciò che facemmo in pegno.


UN PENSIERO SCOLASTICO

 

Se vita è quella dei falsi profeti

che irradiano le tesi del superfluo,

vuoto è lo spazio, vano il tempo, amore

è illusione che non dura un tradimento,

io, davanti a sì fatte ragioni,

non tacerei oramai più le libagioni.

 

Eppure l’uomo oggi vola e inventa,

cammina sulla luna, s’argomenta,

sfrenatamente vive senza legge

che non il proprio utile ed il bello

cercando solo di dimenticare

che cosa il caso mescoli infelice.

E come, se tutto ciò può fare,

oblia quale scuola è la Scolastica?

 

Così prono su l’erba

mentre la vostra idolatria rifulge

falba al tramonto tutta s’azzima

l’alma natura poco fuori Roma

dove l’odor di mare ancora arriva

e le prime facelle vengono a svernare.

 

Così mi chiedo: Che doni sono mai?

La lattescente amica delle ombre,

l’incandescente lampada, il vetro

dei cristalli scintillante,

il fiato che mi gela.

E di queste miglia umane a me non resta,

di queste miglia che una falcata

è cento volte ogni nostra corsa,

il mio piangente riso.

Cosa mi sei allora, tu, universo,

che oltre quell’azzurro hai l’infinito?

(Credo forse di avere tal certezza

da prima ch’io, semmai, venissi al mondo.)

Che l’oggi fugga è un triste pensiero

ma al saggio la clessidra stabilita

è sufficiente se il suo bello è il vero.

Che cosa sei mai, quindi, mia ora,

se vivo tra tutti questi segni eterni?

Soltanto un’alchimia

prodotta in serie per le menti prive

di tutto ciò che buono e giusto vive.

Perciò di voi, mentre la notte scende,

e l’anima mi vola verso i viali

mentre tramate tutto il vostro odio,

io ho per voi, fratelli, compassione,

e sento in cuor dolcezza di perdono.

 

 

CANZONE DELL’ETA' PIU' VERDE

 

Se fossimo al tempo degli antichi,

quando d’Egitto, Israele o Grecia,

di Alessandro o Cesare si aveva

lunga memoria di recenti imprese;

o dell’astratte cose e le concrete

e dell’assurde si contavan gli astri

nelle assemblee, nei templi,

nei versi dei poetastri

sempre l’abbecedario

era croce al discepol refrattario

ma il mio mestiere si teneva

in onore al re, pur se perdeva.

Oggi che altra civiltà è sorta

molto dell’uomo è cambiato il cuore

e più non si va per quella porta

ove il sudar de’ fogli era migliore

né di retorica o di usar favella

non v’è chi curi e lascia alla burella

ché come errare viene

così il regolarsi si conviene.

Io spesso, quando passo i giorni miei,

dentro un’aula a far libri opportuni

a più che due dozzine di figlioli,

crescer sento che il rispetto cala

e nullo il senso delle cose onesto;

così che per leggere di Omero

o per parlar del verbo o della Terra

io che sia pace e guerra

che il bene, l’amicizia, il vero amore,

il sogno, la sottile differenza

tra il grave solco di reità e innocenza,

annuncio con passione.

E sempre dico, quando i brescianini

odo parlar dell’ignoranza patria:

“Ragazzi, se noi siamo in Italia

e se l’Italia è fatta di Italiani

e qualche buona parte di stranieri,

di chi sarà la colpa del suo stato?”.

E dico ciò in classi in cui l’arabo

convive col moldavo e col cinese.

A volte sembra il mondo che vorrei

se non fosse per chi l’odio propaga.

E quelli, cui il vero

ancor non san schermire di parole,

ammettono il pensiero.

Oppure quando poi cade battuta

su se sia loro età pien di vaghezza

io chiedo pur: “Cos’è per voi bellezza?

È qualcosa che passa o che resta?

Prendiamo amore: se uno un dì vi illude

e nel domani poi presto vi lascia,

ha bel gesto compiuto? Di che ha nome?

Ebbene voi pensate che un ragazzino

vada verso Giovanna, la corteggi,

e passando il tempo accanto sempre sia;

questo dirlo possiamo vero amore!

E non è meglio che nel cuor ci stia?”.

Ma tale argomento è troppo vasto

perché vi sia ragion prima del pasto.

In essi mi rivedo, come figli,

in essi che non hanno alcuna colpa

che avere genitori indaffarati,

alcuni senza modi, altri cervello.

E se ogni tanto esternano disagio

è perché son perduti in gran tempesta,

in società dal consumo folle

che non s’avvedon come il petto è molle.

Più che giudizi o scartoffie varie,

più che diagnosi di che sia il millennio

un cardiologo serve, bravo, eterno

che spieghi l’uomo

e che ristabilisca quel principio

che vale al deputato e al villanello.

Giacché, a volte, se si legge “Cuore”

e c’è il faceto che pare sorrida

fermo affermando: “Come noi leggemmo,

avevo vostra età e occhi di pianto,

oggi per voi non c’è altra lezione

che fare l’abbondanza degli stolti?”.

Come se fossi il maggior fratello.

Motteggiato che ho, in me echeggia paura

se “di che pianger suoli” a mente sale

e l’inquietudine di non saper morale.

Perciò in questi tempi, in questo mondo

in quest’Italia cui noi siamo ingombro,

ogni mattina, puntuali e mesti,

come anime vaganti in Malebolge,

alcuni tra le schiere dei docenti,

cercan di strappar valori e canti

facendo ragionar chi dalla tele

trae tutto il suo sapere

e quasi pensi null’altro gli serva

per viver bene in questa Babele.

Ché, anzi, i più scellerati e furbi

vanno in trasmissione e sono ricchi.

E se ricchezza è un valore sacro

che il genitore ha chiarito spesso

è normale poi che ciò li turbi.

A me sconforto e pena è un simil modo

ma come dice “chiodo scaccia chiodo”

se sento un alunno esser brillante

son lieto come ritrovar diamante.

E prendo speranza e in fin confido

che in fondo anche Alberto era brigante,

forse forse anche Forese e Dante,

io stesso e qualcun dei miei, e penso

che intelligenze azzurre alcuni avranno

e un dì Platone e Fedro insegneranno.

Io so che al mondo, qui, chi dice il vero

è sempre ritenuto menzognero;

ma in ciò mi scusa mia natura,

educazione, mente e conoscenza.

Perciò, canzone, tu avrai coscienza

d’andare presso chi non si vergogni

di quel che vuole esser atto illustre

ché per un prof è amore che s’agogni

punire accidia perché faccia industre.


Vito Lorenzo Dioguardi pubblicato il 17.05.2013 [Poesia]


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