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Uno scritto a caso

LA STATUA E IL MARE
[poesia]
Gabriella Soliani
18.12.2008

Lupus in fabula


I

 

- Full. - disse, pacato, l’inglese.

Gli altri due giocatori seduti al tavolo restarono per qualche attimo immobili ad osservare, alternativamente, le cinque carte in comune, e le due del loro compagno.

Due jack, picche e quadri, un sei di fiori, un tre di picche, ed un due di cuori; e poi, un jack di cuori ed un sei di quadri.

Non c’era dubbio su chi avesse vinto la mano.

- Questa sera siete particolarmente fortunato, Lord Cunningham esclamò poi uno dei due, con tipico accento veneziano, mentre con una mano sistemava i folti capelli castano chiaro.

- Non lo si può mettere in dubbio.- confermò l’altro giocatore, chiaramente un francese, mentre osservava il croupier prendere le fiche e distribuirle al vincitore.

Dal canto suo, Lord Andrew Cunningham sorrise amabilmente, come spesso era solito fare quando udiva i commenti sulla sua apparente, sfacciata fortuna a poker.

Non erano molti coloro che riconoscevano fin da subito che la dea bendata non c’entrava, se non in minima parte, e sicuramente molto meno rispetto alla straordinaria abilità di giocatore del nobile anglosassone.

- Sua Signoria desidera giocare un’altra mano?- chiese il francese.

Il sorriso di Cunningham si allargò:- Forse più tardi, monsieur Aubray. Credo che ora andrò un attimo sul terrazzo.- fu la risposta di Lord Andrew:- Vogliate scusarmi.-

Detto questo, si alzò e si allontanò a grandi passi, destreggiandosi tra i vari tavoli da gioco del casinò, che proprio in quel momento si stava lentamente svuotando.

Mentre varcava una delle grandi porte-finestre che conducevano al terrazzo, l’inglese diede una veloce occhiata al suo orologio da taschino, che cacciò da una delle tasche interne della sua elegante giacca da sera nera.

Erano l’una e un quarto.

Prese il suo porta-sigari, ne estrasse uno, quindi lo accese, iniziando a passeggiare con calma, volgendo lo sguardo ad osservare il lungomare sottostante, e poi il mare stesso, illuminato dalla candida luce della luna piena che si rifrangeva sulle onde tranquille.

Il silenzio regnava sul terrazzo, e nel mondo circostante, rotto solo di tanto in tanto dal fugace passaggio di un’auto.

Erano trascorsi tre giorni da quando era giunto lì a Nizza, Lord Andrew, con l’intento di godersi una piacevole vacanza in Costa Azzurra.

In quei tre giorni, aveva avuto modo di conoscere diverse persone interessanti.

Tra costoro, spiccava senza dubbio Nicolas Aubray, un ricco magnate francese, originario di Parigi, che era giunto a Nizza insieme alla sorella, Caroline.

E proprio a Nizza erano stati raggiunti da Angelo Conti, un giovane ereditiere veneziano, anch’egli accompagnato dalla sorella, Teresa; i Conti erano amici di lunga data degli Aubray, come Lord Andrew aveva avuto modo di constatare di persona.

Quanto a lui, era stato introdotto nel gruppo dalla comunanza di interessi che apparentemente aveva con Nicolas e Angelo, in particolare per quanto concerneva il poker.

E quella vacanza si stava velocemente trasformando in un mondano salotto dell’alta società.

- Lord Cunningham.-

Una voce femminile, francese, lo distolse dai suoi pensieri.

Si voltò, e vide l’inconfondibile figura di Caroline Aubray, gli occhi azzurri che sembravano anch’essi resi luminosi dalla luna, ed i fluenti capelli biondi che le ricadevano liberamente sulle spalle, appena lasciate scoperte da un lungo vestito da sera blu notte.

Di sicuro, pensò Lord Andrew, Caroline era una splendida ragazza.

Sorrise.

- Mio fratello mi ha mandato a dirvi che la partita è rimandata a domani.- continuò Caroline, ricambiando il sorriso.

- La mia fortuna li ha spaventati?- chiese l’inglese, con appena una punta di ironia nella voce.

Caroline non mutò espressione:- Angelo si è ricordato di un appuntamento dell’ultimo minuto, ed è dovuto correre via.-

- Appuntamento dell’ultimo minuto?- ripeté Lord Andrew, divertito:- All’una e mezza di notte?-

- Precisamente.-

- Tutto sommato, non è del tutto strano, a venti anni. - Lord Andrew sospirò.

- Anno più anno meno, abbiamo tutti venti anni, compreso voi.- Caroline sorrise nuovamente.

- Ma non per questo fissiamo appuntamenti a certi orari.- finì l’inglese:- Ho capito. Neppure voi siete molto d’accordo, mademoiselle.-

Caroline squadrò il suo interlocutore con fare quasi accusatorio:- Non mi prenda per una di quelle persone che amano giudicare gli altri. E men che mai giudico basandomi sull’ora in cui escono.-

Il nobile inarcò appena le sopracciglia:- Non mi sembra di aver detto nulla di simile.- sorrise.

Anche la ragazza si concesse un nuovo sorriso, mentre si avvicinava al suo interlocutore, appoggiando le mani sul parapetto.

- Tuttavia, posso dire che a mio parere certe ore sono fatte per dormire.- concluse la francese.

Lord Andrew si lasciò sfuggire una esclamazione divertita:- Esistono molti tipi di sonno.- disse.

Caroline si fece improvvisamente seria, quasi cupa:- Non può immaginare quanto ciò che ha appena detto corrisponda a verità, Lord Cunningham.-

 

II

 

Caroline Aubray lasciò il terrazzo poco dopo, rientrando in albergo e lasciando nuovamente l’aristocratico inglese da solo.

Lord Andrew si accorse che il suo sigaro era ormai consumato.

Lo spense, e lo lasciò nella ceneriera di uno degli eleganti tavolini vicini, poi si mise a passeggiare lentamente, guardando il sottostante giardino.

Le luci del casinò, alle sue spalle, si spensero.

La serata era davvero conclusa.

L’inglese si appoggiò al parapetto, ben attento a non sporcarsi la giacca, e guardò le stelle sopra di lui.

Si sentiva vagamente turbato.

C’era qualcosa, in quella notte, che lo rendeva inquieto.

Non sapeva se era colpa delle bellezza della giovane Aubray, per la quale si era ben presto accorto di provare una certa attrazione, o se il motivo era diverso.

Ma non ebbe il tempo di concedersi a lunghe riflessioni, giacché si accorse del movimento di una sagoma, nel giardino; movimento che, in maniera praticamente automatica, attirò la sua attenzione.

Da quella distanza, e al buio, non fu possibile a Lord Cunningham di capire chi fosse, o cosa stesse facendo, e così, a mo’ di ozioso passatempo, decise di osservare la figura fin tanto che gli fosse stato possibile.

Per qualche attimo la sagoma scomparve, nascosta dallo stagliarsi di un salice, e in questo breve lasso di tempo Lord Andrew accese un altro sigaro.

Qualche secondo, e lo sguardo dell’inglese venne attratto da un altro movimento, dietro il salice.

Sorrise.

Chissà se dietro quell’albero qualche cliente dell’albergo non si stesse concedendo una segreta tresca.

Il movimento cessò.

Passarono i secondi, poi i minuti.

Niente.

Nessun movimento, neppure minimo.

Lord Andrew scrutò nel buio con insistenza.

Niente.

Vi era qualcosa di molto strano, ora, in quell’immobilità.

Il giovane si scostò dal parapetto, e continuò a guardare in direzione del salice.

Finalmente poté scorgere qualcosa, tra le lunghe foglie pendenti, vagamente ondeggiante.

Un dubbio iniziò ad emergere nella mente di Lord Andrew.

Spense frettolosamente il secondo sigaro, quindi rientrò velocemente nell’albergo, questa volta per un altro ingresso, e scese le scale dell’ampio salone su due piani che ospitava la hall.

Passò accanto alla sala bar, dove scorse con la coda dell’occhio Angelo Conti sorseggiare qualcosa, poi arrivò alla reception, dirigendosi verso l’ingresso.

- Lord Cunningham, sta uscendo?- chiese cordialmente l’addetto, senza ricevere nessuna risposta.

Il dubbio ormai martellava Lord Andrew.

Doveva vedere.

Raggiunto l’ingresso svoltò verso il giardino.

Superati gli eleganti lampioncini decorati in ferro, si diresse verso il salice avvolto dall’oscurità.

Quanto più vicino si faceva, tanto più rallentava il passo, cercando di carpire il minimo suono, e di scovare il minimo segno di movimento.

Di nuovo, non ebbe successo.

In pochi attimi ebbe raggiunto il salice, quindi girò attorno al tronco.

Si fermò di scatto, come paralizzato.

Sbarrò gli occhi, mentre osservava il corpo di una ragazza pendere senza vita davanti a lui, appeso con una corda ad un rampo di una quercia vicina.

 

III

 

Per ovvie ragioni, Lord Andrew non dormì, quella notte.

Rimase nella hall tutto il tempo, di tanto in tanto prendendosi qualcosa di forte al bar, mentre osservava il via vai dei poliziotti.

L’ispettore George Leraux, che era stato assegnato al caso, aveva voluto sentire per ben tre volte il modo in cui aveva scoperto il corpo.

Lord Andrew aveva riconosciuto quasi immediatamente la vittima: si trattava di una delle clienti dell’hotel, tale Clementine. Una diciassettenne originaria di Parigi, in vacanza con i suoi genitori ed il fratellino di otto anni.

Lord Andrew aveva parlato con lei qualche volta: una ragazza vivace, solare, graziosa e dotata di una certa intelligenza, con un grande desiderio di libertà e di amore, come tutti i giovani.

Per capire tutto questo, del suo carattere, a Lord Andrew erano bastate poche ore di conversazione.

La dinamica di quanto accaduto, così come l’aveva ricostruita la polizia, era molto semplice:  la giovane era riuscita a rubare la spessa corda di una delle tende del salone principale, e poi si era impiccata.

Per gli inquirenti non vi era dubbio alcuno sul fatto che si trattasse di suicidio.

Anche la testimonianza di Lord Andrew sembrava comprovare la loro ipotesi.

Eppure, proprio il lord inglese era il meno convinto di tale teoria.

Non conosceva bene la vittima, pure non gli era sembrata affatto una persona al limite della disperazione o disposta a togliersi la vita a cuor leggero.

Due erano le possibilità: o era accaduto qualcosa, quel giorno, in grado di mutare radicalmente l’animo della povera ragazza, oppure si trattava di una messinscena.

Il più classico dei classici: l’omicidio mascherato da suicidio.

Erano le sei della mattina, quando Lord Andrew si decise a tornare nella sua suite.

Appena entrato si buttò sul letto, senza far caso alla giacca da sera.

L’immagine di Clementine lo stava torturando.

La vedeva sorridente, intenta a conversare con gli altri clienti dell’hotel; poi la vedeva lì, appesa a quella corda, morta.

Sentì una fitta al cuore.

Nella penombra della suite (le persine erano chiuse, e lasciavano trasparire solo pochi raggi del sole mattutino) Lord Andrew si ritrovò immerso nel profondo dei suoi pensieri, a fissare un angolo nascosto del suo animo.

E qualcosa, da quell’angolo, premeva per uscire.

Scuotendo la testa, il giovane inglese si sforzò di tornare alla realtà.

Respirò profondamente.

La sua vacanza si era appena trasformata in un incubo.

 

IV

 

Due gabbiani volteggiavano sulla superficie spumeggiante del mare che si rifrangeva sugli scogli, sotto il caldo sole estivo.

Angelo Conti, la sorella Teresa e Caroline Aubray stavano passeggiando lungo la Promenade des Anglais.

Teresa stava sottobraccio ad Angelo, mentre Caroline li seguiva, poco distante.

- Povera ragazza, quella Clementine.- esclamò Teresa.

Angelo si voltò a guardarla:- La morte prima o poi ci coglie tutti, sorella.- disse, abbozzando un sorriso vagamente ironico.

- E’ vero Angelo. Ma non in certi modi, e non a quell’età.- fu la replica di Teresa.

- Si è tolta la vita. E’ stata una sua scelta.- Angelo si fece improvvisamente duro:- Nessuno le ha detto di impiccarsi.-

- C’è sempre una ragione dietro ogni azione. Anche se illogica, o incomprensibile, ma c’è sempre.- intervenne Caroline.

Angelo ora guardò lei, e i suoi occhi erano glaciali:- Sono i fatti che contano, non la ragione che si cela dietro di essi. E poi, se uno si toglie la vita significa che non è abbastanza forte per sopportarne il peso. I deboli finiscono sempre per soccombere.-

Caroline non si scompose di fronte alla freddezza dell’italiano:- Bisogna sempre vedere chi è davvero il più debole. Ricorda che le apparenze ingannano.- disse.

Teresa rimase in silenzio, ad osservare quel dibattito che sembrava dovesse degenerare preso.

Fu una fortuna, quindi, che proprio in quel momento si udisse il clacson di una auto alle loro spalle, seguito subito dopo dalla voce di Lord Cunningham:- Buongiorno.-

Caroline e Angelo, che fino ad allora avevano continuato a guardasi, quasi in cagnesco, si voltarono verso la strada.

Videro accostarsi una bella Bentley decappottabile grigia, gli interni beige chiaro, con ben in vista i listelli in noce lavorata.

Lord Cunningham era al volante dell’auto.

- Spero di non aver disturbato.- disse, poi.

Fu Caroline a rispondere:- Non si preoccupi. Stavo giusto per tornare in hotel.-

Sorrise, ma la sua espressione non aveva nulla di allegro.

- Allora è una fortuna che sia capitato da queste parti, mademoiselle. Stavo giusto tornando anch’io.-

- Lo prendo come un invito?-

- Come lei desidera.-

Caroline non se lo fece ripetere due volte.

Congedatasi rapidamente dagli altri due, salì in auto.

Lord Andrew partì immediatamente.

- Non potete immaginare che favore mi abbiate fatto, Lord Cunningham.-

- La compagnia era tanto spiacevole?- ora toccò al lord accennare un sorriso.

- Angelo sa essere estremamente fastidioso. Certe volte arriva a farmi paura.-

Il tono di Caroline era serissimo.

Anche Lord Andrew si fece serio.

- Lei lo conosce da molto tempo. Dovrebbe sapere che individuo è. -

- Si, lo so- rispose Caroline, sempre più seria:- Anche se è difficile pure per me distinguere la maschera dalla realtà.-

- Io cosa ho visto finora, delle due?-

Lord Cunningham accostò e fermò l’auto, l’hotel ormai distante pochi metri.

- Dipende da quanto lei è capace di penetrare nell’animo delle persone.-

- Diciamo che sono molto bravo a capire determinati tipi. -

Caroline si voltò a guardarlo:- Quali tipi?-

- Quelli arroganti, presuntuosi, che amano nascondere le proprie effettive debolezze dietro la maschera di una forza solo apparente. Quelli che mostrano al mondo di essere sprezzanti di ogni pericolo, di ogni dolore, immuni finanche alla morte, ma che in realtà sono solo una goffa imitazione, e dentro il loro cuore covano una profonda paura della fine. Quelli che credono, e credono soltanto, di poter manipolare le persone a proprio piacimento. Quelli che, più prosaicamente, non hanno la capacità di riconoscere la Bellezza insita in ogni cosa, e che anzi la insultano, con la loro volgare ammirazione superficiale. Quelli che, per questo motivo, rimarranno sempre in basso, ma che pure, sostenuti spesso dal meschino denaro, o da una insignificante forza fisica, credono di essere più in alto di tutti.-

Gli occhi dell’inglese quasi brillavano, mentre la sua voce sembrava fremere tutta di una indicibile sensazione, pronunciando quelle parole con tono appassionato.

- Da come ne parla, sembra che lei ne abbia avuto esperienza personale diretta, Lord Cunningham.- chiese Caroline, cui tutta quell’enfasi non era sfuggita.

- E’ così, infatti.- ribatté, secco, l’inglese.

- E lei ritiene Angelo di questa pasta?-

- Precisamente. Ma, soprattutto, lo ritengo responsabile di un omicidio.-

Caroline non si scompose.

- Lei pensa che Angelo abbia ucciso Clementine?-

- E’ il mio principale sospettato.-

- Strano. Pensavo che fosse la polizia ad indagare su certe cose. - Caroline era chiaramente sarcastica.

- La tesi del suicidio non mi convince affatto. Sono stato io a trovare il corpo di quella povera ragazza, ed io sono convinto che non si sarebbe mai e poi mai tolta la vita in quel modo, anche se la conoscevo appena.-

- E per quale motivo il suo sospettato è proprio Angelo?-

- Ve l’ho già detto. Per quello che è. -

- Di persone come lui ce ne sono molte. Questo, però, non significa che siano tutti degli assassini.-

- Forse. Ma c’è qualcos’altro a suo carico.-

Caroline ammutolì, in attesa.

- Innanzitutto, e lei stesso me ne è testimone, il signor Conti quella sera si allontanò dal casinò per un non meglio precisato appuntamento. Inoltre, quando uscii nella hall per andare verso il giardino, vidi che era seduto al bar. Non è un mistero che tra lui e Clementine ci fosse qualcosa; era visibile a chiunque. Quindi, avrebbe potuto benissimo compiere lui il delitto.-

- Sempre se di delitto si parla. Ne ha parlato con la polizia?-

- Si, ma non vi hanno dato molto peso. -

- Come mai?-

Lord Cunningham sospirò:- Nessuno dei dipendenti dell’hotel ha visto Conti andare in giardino quella notte. Il medico legale ha stabilito che l’ora del decesso è da porsi tra le due meno un quarto e la mezz’ora seguente.; e, stando sempre alle testimonianze dei dipendenti, Conti a quell’ora era al bar, proprio dove l’ho trovato io. -

- Non le sembra quindi di dover cambiare sospettato?-

L’inglese per tutta risposta assunse un’espressione cupa:- Dovrei, mademoiselle?-

La ragazza lo fulminò, gelida:- Lo chiede a me perché crede che io lo conosca?-

Cunningham non rispose.

- Se è così- riprese la francese:- Non vi posso essere d’aiuto.-

La sua voce era glaciale, tagliente:- Angelo Conti non è una persona. Come lei ha detto poco fa, lui è una maschera. E nessuno può sapere cosa si celi dietro di essa. Ma non credo che questo giustifichi i suoi sospetti.-

Avevano quasi raggiunto l’hotel.

- Fermi pure qui.- aggiunse infine:- Proseguirò a piedi.-

La Bentley si fermò poco dopo.

Caroline Aubray aprì lo sportello, rivolse un freddo saluto al lord inglese e scese dall’auto.

Lord Cunningham la guardò attraversare la strada e dirigersi velocemente verso l’elegante struttura in stile liberty dell’albergo.

Vide l’auto pattuglia della polizia ferma dinanzi ad esso: l’ispettore Leraux era andato ad interrogare per l’ennesima volta in due giorni i familiari di Clementine.

Lord Cunningham soffermò il suo sguardo su quell’auto: gli ricordava vagamente un’auto della polizia di Londra.

La stessa sensazione che lo aveva assalito in camera sua il giorno del ritrovamento del corpo, lo colpì di nuovo. Sentì un dolore lancinante al petto, che lo costrinse quasi a curvarsi in avanti.

Spense la sua auto.

I versi incessanti dei gabbiani sembrarono sparire in un attimo. Sparì il sole, sparì il caldo, e la leggera brezza marina.

Faceva freddo, ora; Cunningham sentì la sua pelle sfiorata dal freddo delicato di innumerevoli fiocchi di neve. Attorno a lui non c’era la Promenade des Anglais. Ora vi era una strada londinese, deserta, immersa nell’atmosfera di un gelido pomeriggio di dicembre.

Era in piedi, su di un marciapiede.

Accanto a lui,vi erano due giovani, che all’apparenza avevano da poco raggiunto la maggiore età; poco più avanti, un altro ragazzo, ed una ragazza; Cunningham li vide parlare, ma non udiva quel che dicevano.

Tutto era immerso in un silenzio surreale.

Poi il possente clacson di un bus in lontananza sembrò squarciare l’aria.

Uno dei due ragazzi accanto a lui si avvicinò alla ragazza; sembrava alterato.

La prese per una mano, e le urlò contro.

Ora anche il ragazzo più lontano raggiunse la giovane. Rideva.

Lei si dimenò e ritrasse la mano da quella dell’altro ragazzo.

Un altro suono di clacson, più possente di prima.

Il secondo ragazzo a questo punto le tirò uno schiaffo.

Ancora il clacson.

Lei indietreggiò, la mano a coprirsi la guancia; era come paralizzata.

Scosse il capo.

Ma il ragazzo sembrava non essere soddisfatto. La prese con forza per le spalle.

Il suono del clacson era ormai vicinissimo.

Il giovane spinse la ragazza giù dal marciapiede.

Furono pochi attimi: lei lo guardò, mentre cadeva rovinosamente sulla strada, distesa.

Si sentì lo stridio delle ruote che si bloccavano sull’asfalto innevato.

Poi il bus passò.

Lord Cunningham era ormai fuori di senno: gesticolava con le mani, come ad allontanare quell’orribile visione da sé.

Chiuse gli occhi, stringendo le palpebre con forza.

Ma la scena era ancora lì, davanti a lui.

Uno dopo l’altro, gli passarono dinanzi i volti di quei giovani.

Vide il ragazzo reo di quell’atto tanto orribile.

Vide se stesso, ancora sul ciglio, cercare di rendersi conto di ciò che aveva appena fatto.

 

V

 

Caroline Aubray, non appena ebbe varcato la soglia della hall, si fermò.

Guardandosi attorno, vide l’ispettore Leraux, accompagnato da un agente, appoggiato al bancone della reception.

Stava parlando con suo fratello Nicolas.

La ragazza li raggiunse:- Ispettore.- disse, con il tono più tranquillo possibile, nonostante la strana inquietudine che la seguiva da che era scesa dall’auto di Lord Cunningham:- Come procedono le indagini?-

Leraux le rivolse un sorriso di circostanza:- Signorina Aubray! Come stavo per l’appunto dicendo a suo fratello, le indagini ormai sono praticamente concluse.-

Nicolas si voltò verso la sorella:- E il responso è che la povera ragazza si è sicuramente suicidata. Una tragedia, ma nessuno poteva farci nulla.-

Leraux annuì:- Precisamente. Una tragedia. Dio solo sa cosa passasse per la mente di quella ragazza!-

Scosse il capo, dopodiché aggiunse: -Ora scusatemi, ma dovrei tornare in albero.-

Salutò ossequiosamente, anche troppo, gli Aubray, quindi uscì dall’albergo insieme al suo accompagnatore in divisa.

Caroline sospirò:- Suicidio! Che follia!- disse sottovoce.

Il fratello le sorrise:- Aveva fatto la sua scelta.-

La ragazza non represse una smorfia di disgusto:- Certe volte parli come Angelo.-

Nicolas si strinse nelle spalle:- E’ solo la verità, Caroline.-

Si staccarono dal bancone e raggiunsero l’ascensore.

- Come mai l’ispettore stava riferendo a te l’esito delle indagini?- chiese Caroline.

Dopo aver chiamato l’ascensore, il fratello si voltò nuovamente verso di lei:- Una mia curiosità. Non è cosa di tutti i giorni un evento simile, e sai quanto io sia curioso. E’ incredibile come il solo nome della nostra famiglia dischiuda dinanzi a noi fonti inesauribili di informazioni di ogni genere.- disse, abbozzando un altro dei suoi sorrisetti.

Le porte si spalancarono:- Il vantaggio di essere una tra le più potenti famiglie di Francia.- aggiunse entrando.

Caroline lo seguì:- Pensi che le conclusioni di Leraux siano giuste?-

Nicolas si lasciò sfuggire una risatina:- Chi sono io per criticare il lavoro della polizia? Se loro dicono che si tratta di suicidio, allora deve essere così. -

- Sapevi che quella ragazza usciva con Angelo?-

Nicolas la fulminò con lo sguardo:- Certo che lo sapevo. Lo sapevano tutti, in albergo.-

- Leraux lo sa?-

L’ascensore si fermò, e le porte si riaprirono pochi attimi dopo sul corridoio del terzo piano.

Nicolas non si mosse:- Ovviamente. Spero per te che non starai insinuando qualcosa sul conto di Angelo. Da quanti anni lo conosciamo?-

Caroline resse lo sguardo del fratello:- Troppi, per non sapere che tipo è. -

- Cosa stai dicendo?-

La ragazza inspirò profondamente:- Non fingere di non sapere, Nicolas! Tu lo sai! E io….-

Si zittì improvvisamente.

Lo sguardo del fratello ora era truce:- Ancora con questa faccenda, Caroline?- sbottò:- Ma quando la finirai? E’ stato un incidente, un equivoco….uno spiacevole equivoco. Smettila di rivangare il passato!-

Detto questo, furioso, uscì dall’ascensore, diretto alla sua suite.

Caroline rimase nell’ascensore, immobile.

La sua inquietudine si faceva attimo dopo attimo più forte.

Si toccò con una mano i lunghi capelli biondi, abbassando la testa.

E dagli occhi di un azzurro scuro, quasi blu, cadde una lacrima.

 

VI

 

Lord Cunningham si guardò attorno, il consueto sigaro tenuto nella mano destra, appoggiato al parapetto della terrazza dell’hotel, esattamente come la sera in cui aveva trovato il corpo di Clementine.

Il sole stava tramontando all’orizzonte, e i suoi timidi, ultimi bagliori di luce contribuivano a creare una atmosfera di malinconia nella visione di Nizza in un tiepido venerdì di fine luglio.

Il giovane lord inglese fissò il tratto della Promenade che giaceva dinanzi ai suoi occhi, e poi il mare.

Una domanda gli balenò nella mente: perché?

Perché era lì?

Perché era toccato a lui trovare il corpo della sventurata Clementine, quella sciagurata sera?

Perché proprio a lui?

Lord Cunningham non aveva mai creduto nel destino, in quella forza misteriosa che secondo le persone conduce inesorabilmente la vita degli esseri umani lungo una strada precisa, ancorché oscura per coloro che la percorrono.

Eppure, come altro spiegare quanto era avvenuto?

Come spiegare il ridestarsi di fantasmi creduti assopiti fino ad allora?

Ma era realmente così?

Davvero lui aveva creduto alla favola che si era costruito ed auto-imposto; davvero aveva creduto che il passato fosse solo passato?

Passato, presente, futuro. Tutti e tre in lui avevano un solo nome, indistinguibili l’uno dall’altro persino nell’immaginazione, condensati in un unico pensiero, in una sorta di fil rouge  che li percorreva, un filo di Arianna che seguiva il percorso del labirinto della sua vita; un labirinto senza uscita.

Condannato a percorrere questo labirinto, fino alla fine dei suoi giorni, a girare e rigirare in quella immensa trappola per topi da laboratorio che era la sua vita, a ritrovare dinanzi a sé i passi già compiuti, circondato dai ritratti di visi già conosciuti, stampati nella sua mente: così si sentiva Lord Cunningham.

Era questa l’unica realtà in cui riusciva a credere.

E questa realtà aveva un nome, che costantemente gli martellava l’animo e la mente, senza mai lasciarlo: solitudine.

Persino davanti la vista del mare colpito dai raggi dorati del tramonto,  Lord Cunningham si sentiva prigioniero di se stesso, della sua mente, dei suoi incubi, della sua solitudine.

Tutte le sue esperienze, tutto quello che aveva vissuto, sembrava essersi sovrapposto, mescolato, trasformandosi in un allucinante coacervo di sensazioni, emozioni, ricordi, sentimenti.

Lord Cunningham sentiva che stava lentamente perdendo la cognizione del reale.

Stralci del suo passato gli comparivano innanzi improvvisamente, squarciando la realtà e proiettandolo nel profondo del suo io, e poi facendolo riemergere improvvisamente, come un naufrago che abbia a stento scampato l’annegamento.

Il clacson di un autobus lo fece trasalire all’improvviso, e non servì a calmarlo il veder passare sulla Promenade la sagoma del veicolo responsabile.

Il cuore gli batteva forte.

Temeva di essere travolto da un momento all’altro da una nuova allucinazione, di essere scagliato nuovamente nell’abisso.

Girò lo sguardo verso il terrazzo: era deserto.

Quella visione non lo rincuorò. Gli sembrava paradigmatica di ciò che sentiva in quel momento.

Spense il sigaro, come sempre, e si decise a rientrare.

Non aveva fame, quella sera, ma ugualmente optò per andare nella sala ristorante dell’hotel.

Quando vi entrò, il suo sguardo si posò immediatamente sugli occupanti di un tavolo posto proprio accanto ad una ampia vetrata di cristallo: erano Nicolas Aubray e i due Conti.

Mancava Caroline.

Fingendo di non averli notati, l’inglese si diresse al tavolo a lui riservato, si sedette, e ordinò il primo piatto letto sul menu, accompagnato da del buon vino d’annata.

Anche il ristorante era quasi vuoto, e silenzioso.

Voltando leggermente il capo nella direzione dei tre, cercò di origliare quello che dicevano.

Angelo aveva un’aria stranamente preoccupata.

Lord Cunningham riuscì a distinguere una domanda:- Caroline non mangia con noi?-

Era Teresa.

- Non si sentiva troppo bene.- fu la lapidaria risposta di Aubray, che non si degnò neppure di guardare la sua interlocutrice.

Seguirono alcuni scambi di battute il cui senso l’indiscreto inglese non riuscì a cogliere.

Il piatto da lui ordinato arrivò, insieme al vino.

Iniziò a versarne un po’ nel calice.

Angelo prese la parola:- Sempre così finisce, sempre. Quando lo dimenticherà?-

Sembrava infastidito.

Fu Aubray a rispondere:- Sta tranquillo, Angelo, accadrà presto. Volente o nolente, il passato è passato.-

La vetrata mostrava il sole ormai in procinto di scomparire del tutto dietro l’orizzonte.

Lord Cunningham bevve un sorso di vino, quindi assaggiò il suo piatto.

I tre si alzarono dal tavolo.

Uscendo, gli passarono accanto, salutandolo frettolosamente.

Lui ricambiò con un sorriso di circostanza.

- Propongo di farci un giro sulla Promenade, per smaltire un po’ la tensione.- disse Aubray prima di varcare la soglia:- Che te ne pare Angelo?-

Comparve un ghigno sul volto del veneziano:- Dico che potremmo divertirci.-

- Prendo la Aston, allora.- rispose il francese, evidentemente compiaciuto.

Uno degli addetti dell’hotel lì vicino li aveva sentiti, dato che gli si avvicinò, dicendogli qualcosa sottovoce.

Aubray sbottò:- Cosa significa che la mia auto non c’è?-

Ora l’addetto replicò con un tono più alto:- L’ha presa vostra sorella, monsieur.-

Aubray e Conti si fissarono negli occhi per un attimo.

Qualcosa non andava, e Lord Cunningham lo percepiva chiaramente.

Angelo ridacchiò:- Avrà deciso di farsi un giretto da sola.-

- Ma se non si sentiva bene…- fu la timida replica di Teresa, ma uno sguardo del fratello fu sufficiente a zittirla.

Si avviarono verso l’ascensore.

Lord Cunningham si sentì prendere da un turbamento.

Una sensazione inesprimibile lo attanagliava.

Buttò giù un altro sorso di vino, quindi si alzò, raggiungendo l’addetto che aveva parlato poco prima:- Sa dov’è andata mademoiselle Aubray?- chiese.

L’uomo scosse il capo:- Mi dispiace, milord. Ho solo visto che prendeva l’auto e si dirigeva verso Mont Boron.-

All’udire queste parole il turbamento dentro di lui crebbe inspiegabilmente.

Rapido, si diresse al parcheggio dell’hotel e saltò a bordo della sua Bentley.

Non appena si fu immesso sulla Promenade, si diresse il più velocemente che poteva verso la scura sagoma di Mont Boron, ben distinguibile nell’atmosfera rarefatta della sera.

Non fece caso a null’altro che non fosse la strada dinanzi a lui e le auto che incrociava. Scrutava insistentemente alla ricerca del minimo segno dell’auto di Aubray.

Non si accorse del palpitare incessante del suo cuore, non si accorse del brivido freddo che gli percorreva d’un tratto la schiena, o di come improvvisamente il mondo attorno a lui sembrasse diventato freddo, desolato, spoglio.

Non le luci degli alberghi e dei casino, non gli schiamazzi della folla, o le sirene delle belle auto sportive; nulla sembrava più esserci al di fuori.

Non si accorse di come l’aria si facesse più fredda mano a mano che proseguiva nella sua corsa forsennata.

Era ormai fuori del centro di Nizza, e la Bentley iniziava la sua salita tra le curve del monte.

Ora puntava verso il mare, e non udiva il fragore delle onde marine sulle scogliere sottostanti.

Poi, vide l’Aston Martin grigio metallizzato di Nicolas Aubray accostata poco dopo una curva.

Caroline era lì, seduta sul guardrail, i piedi che oscillavano nel vuoto, gli occhi azzurri immobili, fissi, come intenti a cogliere l’essenza pura della loro bellezza in quella del mare sottostante, in una fusione del colore e dell’animo.

Lord Cunningham la raggiunse, cauto, quasi tremante, oscillando tra quella visione onirica e le sue allucinazioni.

Lei non si accorse della sua presenza fin quando non le toccò una spalla, nuda fuor dell’abito purpureo che indossava.

Si voltò, puntando il suo sguardo sul volto del giovane inglese.

Non proferì parola, ma l’intensità e la profondità dello sguardo fu sufficiente perché il giovane potesse leggere tutto ciò che le parole non sarebbero mai riuscite ad esprimere.

- Caroline….- disse, mesto, sottovoce.

- Perché sei qui?- chiese lei, e la sua voce sembrava non appartenere più a lei. Sembrava essere un tutt’uno con la melodia del mare.

I biondi capelli sembravano parimenti destinati a fondersi, da un momento all’altro, con la debole luce della luna, con il tremolio delle stelle che timidamente iniziavano a far la loro comparsa sullo sfondo del cielo ancor ceruleo.

Lord Cunningham non rispose subito alla domanda, perché in essa aveva sentito ben più che le semplici parole pronunciate dalla ragazza; aveva sentito che quella domanda apparteneva più a lui, che a lei; che essa proveniva più dal suo animo, che da quello di lei.

- Io…..non lo so..- rispose, con il tono di chi ha paura che la voce gli si tronchi d’improvviso in gola.

Ma poi, sentendo le parole uscire liberamente da sé, fu lui a chiedere: - E tu, perché sei qui, Caroline?-

 

**

 

I

 

Era sotto la bianca luce di uno splendido lampadario di cristallo di Murano che Caroline Aubray aveva conosciuto per la prima volta Angelo Conti, tra gli affreschi ed il bel soffitto settecenteschi della sala da ballo della residenza familiare a Roma.

Lì, circondati dalle figure di amorini danzanti e di splendide ninfe immerse nelle fonti più pure dell’Ellade, i due giovani furono presentati da Nicolas, che già conosceva Conti da diversi anni.

L’occasione fu data da un sontuoso ricevimento che gli Aubray avevano pensato di dare per festeggiare la recente ristrutturazione del palazzo, lasciato abbandonato alla morte dei loro genitori, anni prima.

La prima cosa che colpì Caroline, durante la presentazione, fu la naturalezza di Conti.

Quel giovane d’aspetto fine, e dal peculiare accento veneziano che non tentava neppure di celare quando pronunciava quel poco che conosceva di francese, sembrava essere perfettamente a suo agio mentre discorreva con lei, sorseggiando lo champagne dal suo calice, sorridendo, e guizzando con lo sguardo per tutta la sala, di tanto in tanto indicando divertito alla sua interlocutrice qualche pezzo grosso a lui noto, descrivendone ogni aspetto del carattere a mo’ di caricatura, quasi che lui fosse uno di quei comici satirici sempre intenti a cogliere il lato distorto delle grandi personalità, quel lato a metà tra il buffo ed il tragico al quale non si può sfuggire.

Non era saccente, né sarcastico; dava l’impressione di starsi semplicemente limitando a descrivere quel che tutti avrebbero potuto vedere, se fossero stati più accorti osservatori.

E Caroline si lasciava trascinare da quelle descrizioni, dall’esternazione della profonda conoscenza dell’animo umano che quel ragazzo sembrava possedere, e dal brillare dei suoi occhi color nocciola.

- Perché non descrivi me, ora, Angelo?- gli chiese, assumendo una espressione di sfida sul piccolo viso bianco su cui rilucevano le due gemme color di zaffiro.

Si trovavano nella loggia dell’ala ovest della villa, soli, lasciatisi alle spalle il rumoreggiare discreto del ricevimento, il tintinnio continuo dei calici, il suono delle risatine di signore accalcatesi in un angolo della sala per lanciarsi in arditi pettegolezzi. A tutto questo nella loggia si sostituiva il silenzio, una serenità notturna che riportava la memoria di Caroline a quel quadro di Daubigny che descrive il sorgere della luna sulla campagna inselvatichita.

Angelo la guardò, corrucciando appena un angolo della sua bocca a mo’ di sorrisetto divertito:- Mademoiselle - disse, calcando la parola:- Vuole davvero che la ridicolizzi?-

- Ancora con questo tono formale?- fu la contro domanda di lei, aggiungendo poi:- Si, lo voglio.-

Per un attimo si disse che doveva proprio assomigliare ad una bambina capricciosa, con quel suo atteggiamento. Eppure, non le dispiacque il pensiero.

Lei, cresciuta all’ombra del fratello primogenito destinato fin dalla nascita ad ereditare l’immenso patrimonio degli Aubray, era stata sempre incapace di svincolarsi dal controllo fraterno, alcune volte discreto, altre decisamente invasivo; se questo significava che non aveva una propria vita, che

dentro di lei non covava il ricordo di alcuna esperienza di cui il fratello non fosse stato in qualche modo partecipe, anche solo come ombra dietro le quinte, significava anche che lei, cresciuta all’interno di una immensa campana di vetro, era immersa in un mondo tutto suo ove tutto le era dato, tutto dovuto, dall’irraggiungibile padre/padrone rappresentato da Nicolas.

Non era stupida: possedeva una brillante intelligenza, ed una grande cultura; era una fine conoscitrice di musica, educata all’eleganza ed alla raffinatezza in ogni cosa che faceva o avrebbe potuto fare nel corso della sua vita.

Pure, per certi tratti lei era ancora una bambina. Una capricciosa, viziata, arrogante bambina.

Le due anime convivevano in lei senza dissidio apparente, accomunate da una sorta di passiva idolatria verso Nicolas, che la spingeva ad accettare tutto quello che veniva da lui quasi senza discussione.

E ora, il fratello le aveva portato Angelo.

Dentro di sé, Caroline sentiva che quel ragazzo le stava dischiudendo dinanzi gli occhi una nuova dimensione di vita, fino ad allora sconosciuta, inesplorata, neppure sognata nella sua infanzia ed adolescenza perfette.

Sentiva di essere chiamata ad una nuova vita, un nuovo livello di esistenza.

Era l’Amore, o perlomeno, quello che lei credeva essere l’Amore.

Ma come negare il palpito del cuore?

O la serenità che improvvisamente si era impadronita di lei?

Come negare la trasfigurazione che tutto attorno a lei sembrava subire, quella sera?

- Mi chiedi l’impossibile, Caroline.- rispose Angelo, improvvisamente facendo svanire quella nuvola di pensieri.

- Perché?-

Angelo non rispose subito.

Le prese una mano, delicatamente, toccandola quasi come se non fosse una semplice mano, ma un’opera di inestimabile valore rivestita della seta più preziosa.

Caroline sentì un brivido percorrerle la schiena al tocco di Angelo, poi al brivido si sostituì il calore, e pensò che doveva essere sicuramente diventata rossa in volto.

Il ragazzo le sorrise:- Perché non si può far la caricatura ad una stella.-

“E’ questo un sogno?” si chiese Caroline, mentre Angelo la portava a sé, dolcemente.

Udì il cantare sommesso di un grillo in lontananza.

E il suono cessò improvvisamente, e tutto il mondo scomparve, mentre le palpebre si chiudevano sugli occhi azzurro scuro, e Caroline sentiva le labbra di Angelo sulle sue, il suo respiro mischiato a quello del giovane, le loro mani intrecciarsi. In quel preciso istante, Caroline riuscì a percepire tutta se stessa, nella sua interezza; e l’immagine che aveva era quella di un fremito, che le scorreva nelle vene, che le faceva ribollire il sangue fin sul viso.

Disparve la notte, e al suo posto comparve il sole più luminoso.

Disparve il passato, l’infanzia, l’adolescenza, ed al loro posto comparve il futuro.

Disparve l’animo suo, ed al suo posto comparve l’Amore.

 

II

 

Caroline e Angelo trascorsero da allora insieme tutto il tempo che potevano ricavare da quel soggiorno romano.

Lui la portava per gli eleganti parchi della capitale, le mostrava gli scorci più belli, quelli meno conosciuti, portandola per mano, come fosse una bambina cui bisogna mostrare le meraviglie del mondo, o una principessa che debba vedere il suo reame.

Lei si lasciava portare, trascinare dalla passione, dal sentimento, da quel fremito che non l’aveva più abbandonata dal momento del bacio fatale.

Ogni suo pensiero, ogni sua azione, sembravano ruotare attorno all’immagine di quel giovane che le aveva rapito il cuore.

Ogni notte Caroline si abbandonava al sonno vedendo dinanzi a sé i suoi occhi, e si svegliava il mattino seguente sentendo il suo respiro su di sé.

Sentiva Angelo come il dono più bello che la vita le avesse fatto.

Neppure più le interessava del volere del fratello, se egli sarebbe stato favorevole o meno a quella relazione.

Iniziava a provare il gusto della trasgressione celata, quasi che l’ignoranza di Nicolas desse un tocco di sapore in più, che il pensiero di essa inebriasse ancor più il suo cuore palpitante.

Pure, l’idea che il fratello potesse scoprirlo da solo, e che potesse distruggere con una sua decisione tutto quello, la turbava. Un pomeriggio soleggiato di quella fine di maggio, mentre erano soli nei pressi del Galoppatoio di Villa Borghese, diretti a Piazza del Popolo, dove li attendeva la vettura per riportarli a Villa Aubray, Caroline decise di parlarne al suo compagno.

Angelo sorrise, quel sorriso dolce, disarmante, che tanta presa aveva su di lei.

- Di cosa ti preoccupi, Caroline?- le chiese.

- Non voglio che mio fratello ci separi.- rispose lei, stringendogli la mano.

- Potrebbe mai farlo? Nicolas vuole solo il tuo bene. Mi conosce, siamo amici da tempo, e tu sei felice: perché dovrebbe separarci?-

Vi era nel tono con cui pronunciava tali parole una nota, una sfumatura indecifrabile, che pure ebbe il potere di rasserenare l’improvviso turbamento sorto in lei.

- Glielo dirai?- incalzò la ragazza.

- Quando sarà il momento, certamente.-

- E quando sarà?-

Si fissarono entrambi, intensamente, per qualche attimo, poi lui rispose:- Quando sarà.-

Una rondine volò in alto, tra le fronde degli alberi, andandosi a posare su di un ramo.

Un venticello leggero smosse le fronde, facendo tremolare i raggi del sole che gli passavano attraverso.

Lei lo abbracciò.

Lui la baciò, e il contatto era leggero, leggerissimo, ma allo stesso tempo forte.

Una contraddittoria sensazione che Caroline si era ormai abituata a percepire.

Quando si separarono l’uno dall’altra, lei lo guardò:- Dillo a Nicolas.- sussurrò, quasi implorante, gli occhi fissi su di lui.

Angelo le sorrise nuovamente:- Questa sera, vai nel gazebo della tua villa, Caroline. Ti aspetterò lì. E vedremo come andrà.-

Le accarezzò i capelli:- Ma qualunque cosa accadrà- aggiunse:- Noi saremo insieme.-

 

III

 

Il gazebo di Villa Aubray era in realtà una sorta di padiglione interamente di ferro battuto, chiaramente costruito durante la Bélle Epoque, aggettante su di un piccolo laghetto artificiale coperto di ninfee.

La sera, quel crogiolo di bei fiori, alberi, e rami e foglie, come immagini della piena vitalità di una foresta d’improvviso colta da una forza divina e pietrificata in tutte quelle sue movenze a far da eterno sfondo allo specchio d’acqua, assumeva un aspetto che sapeva di magico.

Il ferro appena appena colpito dalla luce dei solitari lampioni che vegliavano la strada tra di esso e la villa, si trasformava in oro, come nei più arditi sogni degli alchimisti.

Caroline non poteva non paragonare quella vista a quella della Torre Eiffel nella notte parigina: l’effetto era praticamente identico.

Seduta su di una panchina finemente decorata, il braccio destro poggiato lievemente sul bracciolo, era intenta a cogliere ogni minima sfumatura della fievole luce che contendeva alle verdi ninfee il dominio della superficie del laghetto quasi completamente immobile in quella sera accompagnata da una brezza leggerissima, ma in realtà la sua mente ed il suo cuore erano altrove.

Soggiornavano ancora tra le mura della villa, in trepidante attesa della fine del colloquio tanto atteso e tanto temuto.

Caroline si era chiesta spesso quel giorno se quella rivelazione fosse realmente necessaria, o non fosse, piuttosto, una concessione a quel suo velato senso di turbamento.

Ma cosa importava, ormai?

Quel che era fatto, era fatto.

Qualunque cosa il fratello avesse detto, lei non avrebbe smesso di amare Angelo, come lui non avrebbe smesso di amarla.

Qualunque fosse stato il risultato di quell’incontro, in un modo o nell’altro, nulla sarebbe finito.

Caroline sentì, tra il leggero fruscio delle foglie, un rumore di passi appena percepibile.

Si voltò, e vide la sagoma inconfondibile di Angelo avanzare verso il gazebo.

Il ragazzo la raggiunse velocemente, sedendosi accanto a lei.

- Cosa ha detto Nicolas? Acconsentirà al nostro fidanzamento?- chiese lei, senza sforzarsi di nascondere l’impazienza.

Angelo non le rispose. Invece, le sorrise, e le prese le mani, proprio come la prima volta che si erano baciati.

Il soffio del vento si fece appena appena più forte mentre i due giovani si abbracciavano.

Caroline avrebbe voluto chiedergli nuovamente quale fosse stato il responso del fratello, ma le parole gli si troncarono in gola, mentre lui prendeva a baciarla con un’intensità che lei non aveva mai sentito prima.

La sera lasciò il posto alla notte stellata.

Caroline, in un momento di pausa, fissò i suoi occhi in quelli di Angelo, e vi vide ardere una fiamma nuova, impetuosa, terribile.

Si sentì turbata da quella visione.

- Angelo….- sussurrò.

Lui le si fece ancora più vicino, l’avvolse tra le sue braccia, poi le prese le tempie con le mani, volgendo il bel viso verso di lui, riprendendo a baciarla.

Ma i baci erano di una foga, di una impetuosità, tali che Caroline si sentì mancare il respiro.

Sentì il suo cuore ed il suo animo che iniziavano a perdersi, quasi a svanire, in mezzo al calore di quella fiamma di voluttà indescrivibile.

Le mani di Angelo la strinsero più forte ancora, mentre le sue labbra si spostavano sul collo, sulle spalle.

- Angelo….fermati.- sussurrò nuovamente lei, d’impulso.

Ma Angelo non si fermò.

Il vento cessò del tutto, mentre lui continuava a stringerla, con una brama inumana.

Non proferiva parola, ma il contatto stesso parlava per lui.

Fu come se Caroline avesse visto cader dal viso di lui la maschera portata fino ad allora, ed Angelo apparirgli nella sua vera forma.

Mentre reclinava il capo, travolta dall’orrore, sbarrò gli occhi. E vide la luna sopra di sé, bianca, pura, silente ed immobile spettatrice di quanto si stava consumando in quel momento.

Senza che neppure se ne accorgesse, si ritrovò distesa sulla panchina, completamente abbandonata alla furia di lui.

Il suo cuore era frantumato. Dunque era questo, Angelo? Solo una violenta, cieca, brama di possesso?

Lacrime le bagnarono il viso, mentre, paralizzata, impotente, sentiva le mani del ragazzo su di lei.

Un immenso dolore l’avvolse.

Poi, d’un tratto, dal dolore le riuscì di trarre una nuova forza, la forza della disperazione.

Dimenandosi, riuscì a sfuggire alla presa di Angelo, si alzò dalla panchina, tremante, il viso contratto in una smorfia di paura e di orrore. Non ebbe il coraggio di guardarlo.

Fuggì, fendendo le tenebre della notte appena scesa, attraverso il parco della villa, sotto lo sguardo deluso, ma pieno ancora di lussuria, del giovane.

 

IV

 

Tra le ombre sovrane del parco, per i viottoli lasciati oscuri dai lampioni spenti, mentre la ghiaia scricchiolava sotto i suoi passi frettolosi ed incerti, imbiancandole le belle scarpe eleganti, Caroline cercò invano un rifugio dall’orrore.

Mentre il suo incedere si trasformava in corsa disperata, si volgeva indietro, scrutando nell’oscurità, per vedere se Angelo era partito all’inseguimento della preda sfuggitagli.

Ma era sola.

Riprese a correre, come sospinta da una forza misteriosa, per i viottoli, lontano, sempre più lontano dal gazebo, fin quando le sue gambe, tremanti, non cedettero, facendola cadere sulla ghiaia.

Pianse, Caroline; e mentre le lacrime le luccicavano sul bel viso ora stravolto, quasi irriconoscibile, sentiva l’oscurità chinarsi su di lei, avvolgerla da ogni parte, implacabile.

E in quell’istante le sovvenne nella mente la figura del fratello.

Nicolas, la sua unica ancora di salvezza.

Quando avrebbe saputo di quel che era accaduto, di quel che Angelo era stato in grado di fare a lei, sua sorella, egli sicuramente avrebbe scagliato la sua ira su di lui.

Questo pensava Caroline.

Si rialzò, sostenuta da quel confortante pensiero, e tra l’annebbiamento provocato dal dolore e dal terrore, cercò di ritrovare la strada verso la villa.

Vi riuscì, dopo diversi tentativi, e cercando di essere il più silenziosa possibile, evitando di avvicinarsi al gazebo dove credeva che il mostro stesse ancora in famelica attesa.

Mentre si dirigeva verso la fievole luce delle finestre di Villa Aubray, riacquistando forza ad ogni passo che compiva, Caroline poteva percepire ora con maggior chiarezza il dolore del suo cuore.

Tutto in lei sembrava essersi infranto, frantumato, al contatto terribile di quelle mani.

I suoi sogni d’amore sembravano solo nebulosi ricordi di un passato lontanissimo.

La sua bellezza, la sua giovinezza, tutto era scomparso, lasciando il posto alla figura di un’ombra, di una solitaria, fuggevole, miserabile ombra.

 

V

 

Ma il dolore maggiore doveva ancora venire.

E, inesorabile, venne, nel momento in cui Caroline credette di aver finalmente trovato la salvezza.

Venne, quando Nicolas la guardò fisso negli occhi, mentre lei, disperata, a stento trattenendo le lacrime che ancora volevano uscire, le raccontava l’accaduto.

Quando ebbe finito, Caroline si aspettava di assistere all’ira del fratello, di essere vendicata, di avere giustizia, di essere protetta.

Ma nulla di tutto ciò accadde.

Rimase immobile e muta, completamente paralizzata, mentre il fratello maggiore pronunciava la sua durissima, spietata sentenza:- Ora basta, Caroline. Stai esagerando. Sei ancora una bambina, è ovvio; non riesci a comprendere.-

Addirittura, mentre parlava, gli comparve sulle labbra un leggerissimo accenno di sorriso:- Non capisci che è normale per un ragazzo lasciarsi andare, con la persona che ama? Il tuo comportamento è stato a dir poco infantile.-

Le sue parole trafissero nel profondo la sorella.

Poco dopo, sul letto della sua camera, mentre esse continuavano a risuonarle incessantemente nella testa, cercò disperatamente di dare un senso all’incubo che stava vivendo.

Ma non ci riuscì.

Il profumo del giardino sottostante inondava la stanza attraverso la finestra spalancata, mentre i raggi della luna vi proiettavano le ombre notturne.

Caroline giaceva tra le tenebre, rannicchiata, il capo poggiato sulle belle ginocchia nude; non piangeva, non ne aveva più la forza.

Tutte le lacrime erano sparite.

Il suo cuore sapeva che nessuna lacrima sarebbe bastata, nessuno sfogo sarebbe stato sufficiente, nessun grido avrebbe potuto liberarlo da quell’opprimente incubo.

Tra i frammenti della sua anima, Caroline si dibatteva disperatamente alla ricerca di un’ancora cui aggrapparsi.

Rivide dinanzi a sé sua madre, mentre mano nella mano giravano per l’ampio parco della villa, così solare, bello, vivo; così diverso dall’oscurità che vi aveva trovato quella sera.

Rivide sé stessa bambina fissare lo spettacolo della Senna notturna, o la splendida campagna della Provenza, nei pressi di Avignone.

Il sole regnava incontrastato nei suoi ricordi.

Persino quando suo padre e sua madre morirono, il sole rimase alto su di lei.

Ma ora, tutto era perduto. L’oscurità aveva divorato ogni cosa.

 

***

 

I

 

Lord Andrew Cunningham ascoltava la voce del mare sussurrare insistentemente alla sua mente quelle immagini di dolore e di sofferenza, ripeterle senza soluzione di continuità, come una eco interminabile, mentre Caroline taceva.

Gli occhi di zaffiro continuavano a guardarlo, implacabili, immutati nella loro trasfigurazione quasi divina.

Si sentiva come spento, Lord Cunningham, completamente immobile, incapace della benché minima reazione, sopraffatto dalle immagini che Caroline gli aveva dato, e dalle allucinazioni che avevano ormai preso il sopravvento.

Il mondo fisico attorno ai due giovani si era frantumato e dissolto.

Le loro due menti, i loro due cuori, nel breve tempo di quel racconto, si erano come fusi.

Ma alla fine, l’inglese trovò la forza di parlare, e di rompere quel silenzio surreale, in quel limbo di spazio e tempo in cui erano caduti.

- Perché, Caroline? Perché tuo fratello non ti ha protetta?- chiese, la voce tenue, quasi roca.

- Perché non gli conveniva.- fu la secca risposta della sua interlocutrice.

- Ma per quale motivo?-

Caroline ora rivolse i suoi occhi nuovamente al mare:- Mio fratello e Angelo Conti sono più che amici: sono soci in affari. Nicolas finanzia cospicuamente Angelo. I soldi hanno reso le loro due vite perfettamente simbiotiche; se l’uno cade, cade anche l’altro; se l’uno sale, sale anche l’altro.-

- E per questo un fratello abbandona la sorella?-

- Per questo un fratello è disposto a coprire qualunque cosa, si.- replicò Caroline:- E per questo stesso motivo io ho dovuto patire in silenzio tutto questo.-

Un soffio leggero di brezza marina li attraversò, facendo ondeggiare i biondi capelli di Caroline per qualche attimo nell’etere.

Quella improvvisa visione colpì Cunningham con una strana violenza, come uno schiaffo che fosse penetrato dritto fino alla mente.

Caroline sembrò accorgersene.

Lo guardò, ed entrambi si ritrovarono nuovamente a fluttuare in quel limbo di pensieri e sentimenti che avevano involontariamente creato.

- Andrew….- sussurrò lei.

Lo chiamava per nome per la prima volta. Era consapevole ormai di quella strana, improvvisa, ma allo stesso tempo sincera intimità, di quella comunione tanto profonda che si era instaurata tra loro.

Né l’uno nell’altra sapevano dire cosa fosse, o quale origine avesse, eppure era lì, e li aveva legati, per sempre.

 

II

 

La neve era ovunque, aveva coperto ogni cosa, avvolto il mondo sotto il suo bianco, candido, manto, e continuava a scendere, lentamente, silenziosamente, oltre le strade, oltre le aiuole perfettamente tagliate, oltre i prati, oltre i tetti, con i loro comignoli fumanti, e si posava sul piccolo vaso di fiori, sul lampione che vegliava l’incrocio tra London Road e Cranford Drive, sugli steccati di legno, su di una bicicletta lasciata incustodita, appoggiata ad un muretto di mattoni.

Alton sembrava in quel momento uno di quegli agglomerati di casupole messe dentro le sfere di vetro, che appena le smuovi inondano tutto quanto vi è al loro interno di una sorta di neve artificiale.

E Lord Cunningham era lì, in piedi, solo, ad osservare i fiocchi di neve che gli cadevano tutt’attorno.

Aprì il palmo di una mano, verso l’alto, e vide i piccoli cristalli posarsi senza il minimo rumore, con la delicatezza che è loro propria, e poi sciogliersi, mentre altri li seguivano repentinamente.

Si guardò attorno.

Nell’immobilità assoluta del paesaggio, intravide la luce proveniente da una finestrella, al secondo piano di una graziosa villetta.

L’unico segno di vita in quel luogo addormentato come per incantesimo.

Mosse qualche passo verso la casa.

Solo allora si accorse della figura di Caroline accanto a lui.

- Questa è Alton, una cittadina dello Hampshire, non molto lontano da Londra.- disse, incurante se lei vedesse o meno quella sua allucinazione improvvisamente riemersa con tutta la forza e la nitidezza della realtà.

Ma lei vedeva, e sentiva. Esattamente come il giovane inglese poco prima, anche lei si ritrovò coinvolta in quella travolgente ondata di ricordi.

- Era la fine di gennaio- continuò lui:- Nevicava ormai da due ore. Io mi trovavo lì per far visita ad un mio nuovo amico, Robert Kingworth; abitava proprio a Cranford Drive, ma era la prima volta che vi andavo, e aspettavo che comparisse sulla strada.-

Continuava a camminare verso la villetta, finché non si trovò davanti il piccolo cancelletto di ferro battuto.

Lo toccò con la mano infreddolita. Sentiva il freddo metallo a contatto con la sua pelle.

No, non poteva essere solo un’allucinazione.

Riprese a raccontare, sopraffatto dalle emozioni:- Mi avvicinai a questa villetta- disse, e la sua voce era distante; tutto il suo essere era rivolto verso il ricordo che stava vivendo.

- Non so neppure perché lo feci. Forse fu la luce ad attirarmi, o forse qualcos’altro. Mi accorsi che la finestra non era chiusa, e che da essa proveniva una voce. Era una ragazza che cantava.-

Alzò lo sguardo verso la finestra, mentre la melodia si diffondeva per tutta la strada:- Non dimenticherò mai quel suono, mai.-

Caroline era ancora accanto a lui:- Chi era?- chiese.

- Il suo nome era Eleanore, Eleanore Murray.- fu la risposta del giovane.

Si voltò a guardare la porta di ingresso della casa.

Sentì il cigolio dei cardini, lo scattare della maniglia.

- Stava uscendo di casa in quel momento. Ci incontrammo proprio qui, così, sotto la neve. - si lasciò uscire un sorriso, sulle labbra.

Vide Eleanore scendere i piccoli gradini che portavano al cancelletto.

I loro sguardi si incrociarono in quell’istante.

Vide se stesso, proprio lì accanto, mentre le sorrideva, spontaneamente, come per un impulso che non era riuscito a contenere dinanzi a quella ragazza dall’aspetto minuto, e dai grandi occhi grigio perla, tanto luminosi che sembravano due fari incastonati nel viso reso perfettamente ovale dal cappello di lana che indossava, nascondendo i capelli.

Eleanore replicò con un altro sorriso altrettanto spontaneo.

- Era la ragazza più dolce che avessi mai conosciuto.- riprese a raccontare Cunningham:- Poco dopo, scoprii che in effetti era anche la ragazza di Robert. Stava proprio andando a casa sua, ansiosa di conoscere l’amico aristocratico del suo fidanzato.-

Scosse il capo.

- Oh….Eleanore.- esclamò. Una lacrima gli rigò il volto.

Il suo cuore era ricolmo di un sentimento indescrivibile.

Un senso di dolcezza lo aveva invaso rivivendo quel ricordo, rivedendo tutto come per la prima volta; ma alla dolcezza ora subentrava la tristezza, la consapevolezza che tutto era passato.

- Diventammo amici, ben presto. Lei venne a studiare a Londra, con me e Robert, e così passavamo sempre più tempo insieme. E più ciò accadeva, più mi accorgevo della verità.-

- Che eri innamorato di lei.- soggiunse Caroline.

Cunningham annuì:- Si, è così. Me ne resi conto fin troppo presto; ma non sapevo cosa fare, come comportarmi. Poi, tutto iniziò a cambiare.-

In un attimo, la scena scomparve.

Lord Cunningham si ritrovò ancora una volta a Mont Boron.

- Cosa accadde?- chiese Caroline.

- La stupidità prese il sopravvento.- rispose lui, fissando ora il mare confuso con il cielo della sera:- Sopraffatto dalle mie emozioni, dai miei sentimenti, mi lasciai trascinare in un abisso di volgarità, in una spirale di degradazione.-

Ora dalla sua voce traspariva la rabbia, una rabbia che cresceva sempre più, ad ogni parola:- Avevo trascorso quasi tutta la mia infanzia e adolescenza in solitudine. Senza amici, evitato da tutti perché ero “diverso”, perché vivevo immerso nei miei sogni ad occhi aperti, nelle mie fantasie, senza curarmi del mondo circostante, libero, ed indipendente. Per questo ero un emarginato.-

Fece una pausa.

- E’ così: se sei libero, sei anche solo. Ma la solitudine è un giogo ben peggiore da portare di ogni servitù. Alla fine, le permisi di sopraffarmi, di guidare le mie azioni.-

Caroline, silenziosa, attendeva che il racconto proseguisse, aspettava che quell’animo sofferente continuasse ad aprirsi, lacerasse nuovamente le ferite mai rimarginate, mostrando l’intima essenza del suo dolore.

Cunningham strinse i pugni:- Nella mia debolezza, divenni succube di Kingworth, volutamente nascondendo a me stesso la verità.-

- Quale verità?- Caroline sentì un tremito dentro di sé.

L’inglese la guardò:- Che Robert Kingworth era un mostro, esattamente come Angelo Conti.-

 

III

 

Gli ultimi bagliori della sera declinavano ormai all’orizzonte.

Caroline era ancora ferma sul guard-rail, intenta a fissare il giovane aristocratico inglese annientato dai ricordi e dal dolore.

- Perché soffri tanto, Andrew?- gli chiese poi d’un tratto, con la voce melodiosa:- Cosa ti porti dentro capace di procurare tanto dolore?-

Gli occhi di Cunningham erano lucidi, ormai più di una lacrima gli bagnava il viso.

- Perché soffro? Perché soffro?- ripeteva, quasi singhiozzando.

Alzò lo sguardo verso il buio della notte, verso le stelle che li sovrastavano.

- Perché….- sussurrò:- Perché lei è morta. Ed io l’ho uccisa.-

 

IV

 

Anche quel pomeriggio nevicava. Più di un anno era trascorso da quando l’aveva vista per la prima volta, ma lei non era cambiata.

Gli occhi erano rimasti luminosi come sempre.

Luminosi, nonostante quell’anno fosse stato gravido di sofferenza e turbamenti per lei.

Non indossava il cappello di lana di quella volta, ma i capelli castano scuro le ricadevano liberamente sulle spalle, mentre i fiocchi li bagnavano lentamente.

Erano in una via poco distante da Piccadilly Circus, quel giorno, Cunningham, Kingworth con un suo amico, ed Eleanore.

La ragazza era sconvolta.

Ancora una volta, Lord Cunningham si ritrovò ad assistere al ricordo.

Ma a differenza di quando era ricomparso mentre era alla guida della sua auto, sulla Promenade, questa volta tutto era più nitido, più reale.

Drammaticamente reale.

Era accaduto tutto molto in fretta, ed in maniera altrettanto semplice.

Eleanore aveva scoperto che Robert l’aveva tradita più di una volta durante quell’anno, e non aveva retto.

Il loro periodo insieme era stato turbolento: Robert sapeva essere estremamente egoista, e non aveva mancato di dimostrarlo più di una volta. Pure, lei le era rimasto accanto.

Ma questa volta era diverso.

Aveva deciso di lasciarlo, e lo aveva raggiunto in fretta lì, in quella strada, per parlargli a quattr’occhi una volta per tutte.

Ma Robert non se ne curò.

Sorrise, come sempre quando sentiva qualcuno sfidarlo, e non le rispose.

Poi lei si era rivolta verso Cunningham.

Lui, l’aristocratico, sapeva da tempo dell’infedeltà di Robert, e aveva taciuto.

- Non dicesti nulla?- interruppe Caroline.

Lui scosse il capo:- No. Mi sentivo……bene. O almeno credevo fosse questo che sentivo. Capisci? Io e Robert eravamo complici. Io non ero più un emarginato, ero qualcuno, ero finalmente qualcuno. Soltanto dopo mi resi conto di essere solo un codardo, un vigliacco.-

- Eleanore ti accusò?-

- No, non lo fece. Disse che mi aveva sempre ritenuto un amico fidato, che lei non avrebbe mai e poi mai creduto che io le avessi nascosto una tale nefandezza. Mi chiese se era vero…..-

Si bloccò di colpo, sopraffatto dai singhiozzi:- Dio mio…….le dissi di si. Le dissi che era tutto vero, che doveva farsi da parte.-

Si fermò ancora:- Lei iniziò a piangere, mi insultò, ed io le tirai uno schiaffo.-

Caroline era impietrita.

- Sentivo dentro di me qualcosa che non avevo mai provato prima, una sensazione che non riuscivo a decifrare…..provavo odio. Odio verso di lei, che non si era mai accorta di quello che provavo per lei, che era rimasta accanto a quel mostro fino alla fine pur intuendo come fosse fatto; perché non aveva scelto me? Perché? E più le infierivo contro, più mi sentivo….vivo.-

Cunningham sembrava essere sull’orlo della follia. I suoi occhi erano vitrei, il viso pallidissimo, le mani tremavano.

Nell’aria si udì il cupo suono del clacson del veicolo fatale.

- La spinsi sulla strada, la feci cadere.- continuava Cunningham, ora quasi urlando.

Il clacson divenne un suono insostenibile nella sua mente; si portò le mani alle orecchie come per non sentire.

Ancora una volta, vide Eleanore cadere, guardarlo con gli occhi grigio perla per un’ultima volta.

E poi, morire.

 

V

 

Lord Cunningham cadde in ginocchio, distrutto.

Piangeva a dirotto.

Il ricordo scomparve, e tornò la sera morente della Costa Azzurra, tornò la leggera brezza marina con il suo odore di sale che si mescolava con i profumi dei fiori.

L’inglese ebbe la forza di alzare il viso contratto dal dolore verso la ragazza che ancora lo osservava:- Sono un assassino, Caroline….sono un mostro, come Robert…anzi, più di lui….come Angelo….-

Non si accorse che una lacrima bagnava anche il viso di lei.

Poi, sentì il tocco della sua mano sottile sulla sua spalla.

- No, Andrew…..non sei un mostro.- disse lei, con un filo di voce:- Sia io che te siamo stati vittime, e pur di salvarci, pur di fuggire, siamo diventati carnefici. Tu, facendo quello che hai fatto, ed io, nascondendo la verità.-

Caroline sentiva qualcosa, nel suo cuore, iniziare a farsi strada. Qualcosa di nuovo, di indefinito.

Istintivamente, scese dal guard-rail, sulla strada, e si inginocchiò davanti a lui.

Il pensiero della morte lentamente la stava abbandonando.

Sentiva le nebbie sul suo animo diradarsi a poco a poco.

- Tu non hai fatto nulla, Caroline.- replicò Cunningham.

Lei scosse il capo con forza:- Se avessi detto la verità, se avessi avuto il coraggio di oppormi, Clementine non sarebbe caduta vittima di Angelo.-

- Ciò non toglie che tu non sei un’assassina.-

- Lo sono, esattamente come lo sei tu. -

Caroline pronunciò queste parole con una tal fermezza, da scuotere nel profondo il suo interlocutore.

- Perché dici questo?-

- Perché è la verità: ti sei lasciato sopraffare, esattamente come me. Abbiamo trascorso la nostra esistenza da allora credendo di essere soli, di essere ingabbiati nella nostra solitudine, e nel nostro peccato.-

- E non è così, forse?-

Si guardarono negli occhi, entrambi, allo stesso tempo.

- Questa sera, qui, abbiamo scoperto quanto fossimo stupidi e folli al pensarlo.-

 

****

 

I

 

Seduti sulla spiaggia, all’ombra delle luci della Promenade e del Palais de la Mediterranée, Caroline Aubray e Lord Andrew Cunningham osservavano la falce lunare riflettersi sulle onde calme del mare.

La brezza era cessata da un po’, ed il silenzio regnava.

I rumori delle auto, e della vita notturna di Nizza che si svolgeva proprio alle loro spalle, sembravano distanti mille miglia.

- Conoscevo già il nome di Robert Kingworth.- proruppe improvvisamente Caroline, pur restando immersa in quella serena contemplazione.

Per la prima volta da anni, i cuori di entrambi si sentivano leggeri, ed era una sensazione che volevano gustare fino in fondo.

Cunningham non rispose, ma si voltò per un attimo a guardarla, attendendo che continuasse.

- Sbaglio o è diventato un giovane azionista di punta?-

- No, non sbagli. Entrò in finanza poco dopo la morte di Eleanore.- rispose lui.

Caroline annuì:- Ha numerosi rapporti con Nicolas.-

- Perché la cosa non mi sorprende più di tanto?-

Caroline si concesse un lieve sorriso, e Cunningham si rese conto di quanto fosse incredibilmente bella, al chiarore lunare, liberata dal peso della sua angoscia.

- E’ sempre stato portato per la finanza, Robert.- continuò:- Gli piaceva il potere. E la sua famiglia gliene concedeva già molto, all’epoca in cui ci conoscemmo. Fu grazie a lui, oltre al mio nome, se non venni accusato dell’omicidio di Eleanore.-

La sua voce si fece tenue.

- Vai spesso a trovarla?- chiese la ragazza, adeguando il tono di voce al suo.

- Ogni mese, il giorno della ricorrenza, le porto dei fiori. Il cimitero di Alton ormai per me è come una seconda casa. Mi fa bene, però: è come se in un certo senso le chiedessi perdono…..ma non credo che me lo abbia mai concesso.-

- Perché non dovrebbe?-

- Perché dovrebbe?-

I due tacquero per qualche attimo, tornando alla contemplazione di quella natura stellare, prima che Cunningham riprendesse a parlare:- Cosa ho fatto realmente per meritarmi il perdono? Sono fuggito, lontano. Ovunque sia andato, è stato sempre per fuggire da ciò che avevo fatto. E quando ho visto Clementine, morta, io…..-

- Hai creduto che tutto si stesse ripetendo?-

Annuì:- In un certo senso. Per questo mi sono accanito fin da subito su di Angelo.-

- Hai seguito la strada giusta.-

- Mi chiedo fino a che punto lo sia.-

Cunningham sospirò:- Cosa ho concluso? Ho solo cercato di trarre la mia vendetta, trasfigurando Angelo in Robert, e divenendo un patetico investigatore fai-da-te.-

- Forse l’hai visto come un modo per guadagnarti il perdono.-

Caroline lo guardava ora, e non distoglieva gli occhi da lui.

- Ma non ho concluso nulla ugualmente. Angelo non può aver commesso quel delitto.-

- Infatti. Clementine si è suicidata.-

Ora toccò all’inglese guardarla:- Tu ci credi veramente?-

- Certo.- rispose lei, annuendo:- Ma non dimenticare che esistono tanti modi, per uccidere una persona.- e poi aggiunse, subito dopo, con un tono improvvisamente impregnato di tristezza:- Noi ne sappiamo qualcosa, non trovi?-

- L’ha portata al suicidio?-

- Io credo di si. Le persone come Angelo, uccidono il cuore delle persone, prima ancora che i corpi.-

Abbassò appena il capo, mentre le sovvenivano nuovamente i ricordi.

Cunningham fu colto da uno strano tremito a quella vista.

Le prese il mento con una mano, portando il viso di lei nuovamente alla luce della luna:- Allora dobbiamo impedire che possa farlo di nuovo.- disse.

 

II

 

La morte di Eleanore, il pianto disperato, la villetta di Alton, la neve che cadeva copiosa, e poi l’immagine di Caroline fuggente, distrutta, per il parco di Villa Aubray, e poi ancora Eleanore, mentre sorrideva, e di nuovo, mentre lo guardava, con l’ultimo sguardo prima della morte.

Tutto questo scorreva dinanzi agli occhi di Cunningham, come immagini di un film riflesse sul bianco accecante della coltre di nubi che lo sovrastava.

Un suono di campane le dissolse in un attimo, riportandolo alla realtà.

Suonavano a morte, ed il cupo battito si diffondeva nell’aria con una vibrazione indefinita; la cadenza dei colpi li faceva rassomigliare al lento battito di un cuore morente.

Cunningham, seduto su di una panchina, guardò le fronde dell’albero che lo sovrastava.

Due colombi sfrecciarono sopra di lui, mentre socchiudeva gli occhi, immergendosi di nuovo, per qualche fugace attimo, nel suo passato.

In quegli ultimi giorni, si era spesso ritrovato a percorrere a ritroso la sua vita, prima dell’incontro con Eleanore.

Aveva riprovato le sensazioni della sua adolescenza.

Aveva sentito la solitudine, quella solitudine apparentemente senza fine che lo aveva inghiottito senza più lasciarlo andare. Aveva trascorso anni a combatterla, a tentare di uscire da ciò che lui sentiva essere una gabbia, che lo circondava, ma senza successo. Poi, dopo quei vani combattimenti, aveva incontrato Eleanore.

Non ne sapeva il motivo, pure quella ragazza aveva riacceso nel suo cuore quella fiamma di speranza che lui credeva essere irrimediabilmente destinata ad estinguersi.

Ma l’idillio era durato fin troppo poco.

Per mesi e mesi, dopo averla conosciuta, una sola domanda lo aveva tormentato incessantemente: perché? Perché Robert? Perché non lui?

Cosa aveva lui di sbagliato?

La convinzione di avere qualcosa di sbagliato, di essere fondamentalmente sbagliato non impiegò molto per impadronirsi di lui.

E lo trasformò in un burattino, in un misero, vile burattino.

Ogni volta che Eleanore lo guardava, sia pure per caso, lui sentiva una fitta al cuore.

I suoi occhi, anche solo la sua voce, avevano la capacità di trafiggerlo nel profondo.

E dentro di lui, così, era maturata l’atroce perversione, e lei era divenuta, senza che neppure Cunningham se ne fosse accorto, il simbolo di tutta la sua sofferenza. Un simbolo da odiare e da distruggere.

Ma l’amore non era scomparso; e quando Eleanore morì, riemerse con tutta la sua forza, squarciando quasi l’animo di Cunningham e buttandolo sulla soglia dell’auto-annientamento.

Ora, finalmente, lui aveva avuto la possibilità di fare ammenda.

Ora, avrebbe potuto ottenere quel perdono cui tanto anelava.

- Eleanore…-sussurrò tra sé, osservando i due colombi allontanarsi tra le fronde, sotto quella opprimente cappa bianca.

- Presto potrai perdonarmi…..e riposare in pace. -

Le campane batterono il loro ultimo rintocco.

Caroline era poco lontana.

Cunningham si alzò, e la raggiunse.

-Sono tutti dentro.- furono le uniche parole che la ragazza gli rivolse in quel momento.

Cunningham fece pochi passi in avanti, verso la chiesa dinanzi a lui:- Dunque, il momento è arrivato.-

Caroline annuì, senza dir nulla.

Iniziarono ad avanzare verso la chiesa, attraversando la piccola stradina che li separava da essa.

Salirono i piccoli gradini, e si ritrovarono sulla soglia dell’ampio portone di legno massiccio.

Entrambi furono improvvisamente assaliti dai ricordi, ma li respinsero.

Con un moto istintivo, cercarono l’uno la mano dell’altra.

E così, insieme, entrarono.

 

III

 

La celebrazione del funerale di Clementine si teneva in quella piccola chiesa alla periferia di Parigi, la sua parrocchia.

L’interno era stato riempito di fiori. Un dono di Caroline, che aveva assunto per questo i migliori fiorai della città. Delle spese di inumazione si era invece fatto carico il fratello Nicolas, su intercessione della sorella.

Era riuscita a convincerlo che sarebbe stato un gesto ben visto da tutti.

E così, oltre ai familiari, ai parenti ed agli amici, nella piccola chiesa parrocchiale stavano, in bella vista, anche Nicolas Aubray, Angelo Conti e la sorella Teresa.

Ma la cosa che colpì Cunningham, fu la presenza di Robert Kingworth.

Non appena lo ebbe notato, guardò Caroline:- Che ci fa lui qui?-

La ragazza gli ricambiò lo sguardo, e replicò con disarmante tranquillità:- Era a Parigi per affari, e l’ho convinto a venire.-

Sentendo quelle parole, Cunningham si sentì invaso da un senso inesprimibile di gratitudine verso quella ragazza.

Non inquietudine, non ansia, o nervosismo, o paura lo dominavano. Solo gratitudine.

Caroline gli stava regalando un’occasione ben al di là delle sue aspettative.

- Ti ringrazio, Caroline.- le disse.

- Per cosa?-

Un suono mesto di campanelli accompagnò la comparsa del celebrante sull’altare.

Iniziò la liturgia.

- Per tutto.-

 

IV

 

Nella penombra della chiesa, dal fondo della navata laterale destra, dove si trovavano, nell’atmosfera quasi rarefatta del luogo sacro, Cunningham vide la bara bianca poggiata ai piedi dell’altare.

Tutto, nell’aria, sapeva di mistero.

Vide la madre di Clementine, in prima fila, cercare di trattenere il pianto, senza successo.

Vide il padre poggiarle una mano sulla spalla, stoicamente tentando di resistere anche lui, dinanzi alla sopraffazione del dolore.

Dall’altra parte della navata, Nicolas era immobile. Sembrava una statua di cera.

Angelo Conti lanciava occhiate per tutta la chiesa, con l’atteggiamento di un animale braccato.

E Robert Kingworth sembrava il gemello di Nicolas.

La celebrazione finì.

E venne il momento, l’attimo cruciale.

Facendosi largo tra la folla, attraversando rapidamente la navata laterale fino all’altare, Cunningham si presentò sul pulpito.

Tutti gli occhi si fissarono su di lui.

Aveva chiesto, giorni prima, alla famiglia di Clementine, di poter fare un proprio discorso d’addio alla povera ragazza. I genitori non avevano avuto il coraggio di rifiutare.

Non sapevano, pensò l’inglese, che così facendo avrebbero reso giustizia alla loro figlia perduta.

- Non conoscevo bene Clementine, quindi non sono la persona più adatta per raccontarla. Pure, ho voluto anche io parlare, qui, oggi.- iniziò.

Sentì l’eco della sua voce per le navate, diffondersi nel silenzio.

- Cosa posso dire di Clementine?- riprese:- Solo quello che ho visto: una ragazza che voleva vivere, e che amava vivere; una persona degna di vivere. Eppure, proprio lei, ora non è più tra noi. Cosa significa tutto questo? Qual è il motivo, la ragione, di tutto questo? Non sono un teologo, non sono un filosofo, ma sono un uomo. -

Fece una pausa, durante la quale cercò con lo sguardo Caroline.

La trovò esattamente dove l’aveva lasciata. I loro occhi si incontrarono, ancora.

- E da uomo io posso dirvi, che Clementine non si è suicidata, non si è tolta spontaneamente la vita. - ora la sua voce sembrava tuonare per la chiesa.

- Clementine è stata assassinata dal mondo in cui viviamo. Da questo mondo, da questa società.-

Improvvisamente, con un moto brusco del capo, il suo sguardo si fissò su Angelo.

Una inquietudine prese l’animo del veneziano.

- Clementine credeva nella vita, nell’amore, e il mondo l’ha uccisa proprio per questo. Ma chi, chi è l’esecutore di questo orrendo delitto? Chi? La società è solo una mandante, ma l’assassino è l’uomo. Chi dunque ha realizzato tutto questo? Ebbene, signori, costui è qui, in questa chiesa.-

Un brusio confuso si levò dalla folla, accompagnato da un volteggiar di teste.

Cunningham si sentiva infiammato come non mai. Come i profeti dell’Antico Testamento, si sentiva come investito di una potenza divina. Sentiva nella sua voce come il dardo nelle mani di Zeus, pronto ad esser scagliato.

- Angelo Conti, che ha indotto al suicidio Clementine dopo averla sedotta.- gridò.

Ora il brusio si trasformò in caos.

Angelo era impallidito, ma ancora sosteneva lo sguardo dell’inglese

I genitori della defunta sembravano sprofondati in una trance profonda.

Nicolas mostrava chiari i sintomi dell’ira. Nella sua mente, iniziavano a farsi chiare le reali intenzioni della sorella, si rendeva conto della trappola in cui era tanto ingenuamente caduto.

Il lord sapeva di avere ancora poco tempo, prima che la reazione esplodesse.

- E’ lui, qui, il vero assassino. E’ lui che ha mosso la volontà di Clementine, prima ancora che la sua mano. E’ lui, il mostro. Lui, e quelli come lui. - ed ora il suo sguardo si spostò su Kingworth:- Sono i mostri che la nostra società sguinzaglia tra noi affinché distruggano l’intima essenza dell’uomo! L’Amore!-

Il caos nella chiesa riprendeva ad ogni sua pausa, salvo cessare quando la sua voce tuonava nuovamente nella sala.

- Dico questo perché voglio che coloro che amavano Clementine sappiano che il suo gesto aveva una ragione, che ella vi è stata spinta da una volontà estranea.-

Nicolas non resse oltre.

Con uno scatto quasi felino, si lanciò dal banco verso il pulpito.

Ma venne fermato da una voce alle sue spalle:- Fermati, Nicolas!-

Caroline, dietro di lui, al centro della chiesa, lo guardava con occhi di fuoco.

- Caroline!. Nicolas assunse un’aria d’un tratto incredibilmente composta:- Quest’uomo sta delirando. E’ vergognoso come stia…-

- Taci!- urlò la sorella.

E l’urlo si sparse per il luogo sacro riecheggiando per le navate, sulle teste dei presenti, più e più volte.

Nicolas era sconvolto; cercò di balbettare qualcosa:- C-c-cosa…t-ti è preso?-

- Non te lo ripeterò una seconda volta, Nicolas.- dalla simulata tranquillità della voce si poteva sentire il ribollire della furia vendicatrice.

Fu Robert Kingworth a cogliere la palla al balzo.

Unico, apparentemente, a non esser minimamente toccato dal caos che regnava nella chiesa, si mosse in avanti, anche lui verso il pulpito.

Sorrideva.

- Bel discorso, mio caro Andrew. Ma permettimi di far si che queste persone sappiano chi tuona loro dall’alto del pulpito.-

Si voltò, con un gesto teatrale, verso la folla sconvolta:- Signori e signore, costui, Lord Andrew Cunningham, le cui parole ci hanno colpito tanto, paladino della crociata contro i “mostri”, come li ha definiti, è in realtà un assassino.-

Non sorse un altro brusio. Le persone erano ormai completamente confuse, e non pensavano ad altro, se non a vedere come si sarebbe districata l’intricata matassa.

Cunningham, però, si ritrovò sull’orlo dell’abisso.

Le parole di Kingworth fecero riemergere in lui tutto il dolore, e la consapevolezza della colpa.

L’immagine di Eleanore riprese a torturarlo con intensità ancor maggiore.

Ma un’altra consapevolezza accompagnava tutto questo: Cunningham sapeva che era giunto al suo combattimento finale.

Era il momento in cui tutto sarebbe stato messo in gioco.

Anche Caroline lo capì. E tutta la sua attenzione, da Nicolas ancora troppo scosso per reagire, e Angelo, che si era buttato letteralmente sul banco, pallidissimo, si spostò sull’inglese.

- Si, sono un assassino.-

Tutti tacquero.

Anche Kingworth sembrò colpito.

- Sono un assassino. Ho ucciso la persona che amavo, ma se ciò è successo è stato perché io per primo non ho voluto vedere, non ho voluto aprire gli occhi, e capire che tu, Robert Kingworth, la stavi distruggendo. E mi sono macchiato io del crimine che tu stavi già perpetrando da tempo.-

- Tu….- grugnì Kingworth, inferocito:- Sai cosa succederà?-

Cunningham annuì:- Lo so bene. Entrambi pagheremo per le nostre colpe.-

Scese dal pulpito, e in un attimo fu accanto al suo interlocutore:- Questa è la fine, Robert.- gli disse, sottovoce, senza neppure guardarlo.

- Cosa stai farneticando?- urlò lui.

- Ho inviato alla nostra ambasciata una confessione scritta in cui mi accuso dell’omicidio di Eleanore. E sia in essa, che negli atti di allora, sai bene che tu compari come testimone. Nel momento in cui io sarò condannato, tu verrai con me….per falsa testimonianza, e complicità in omicidio.-

Kingworth impallidì, come Angelo prima di lui. Traspariva la paura che prova l’animale quando si scopre braccato, e senza via di uscita.

- Addio, Robert.- concluse Cunningham.

Si avviò verso l’uscita della chiesa, lentamente, sotto lo sguardo taciturno di tutti.

Caroline lo accompagnava.

- E’ finita.- sussurrò tra sé:- Ormai, è finita.-

Uscirono fuori, si ritrovarono sul ciglio della stradina.

Ancora non si dicevano nulla, i due ragazzi.

Un clamore si levò alle loro spalle, improvviso.

Qualcuno stava uscendo, dietro di loro.

- Tu!-

Quella parola risuonò in un urlo agghiacciante, un urlo di rabbia, di furore, di terrore.

- Tu!-

Cunningham si voltò, per nulla scosso.

Fissò Angelo Conti senza battere ciglio.

Il veneziano era stravolto. Negli occhi, si leggeva il principio della follia.

- Cosa credevi di fare, lì dentro? Chi ti credi di essere?-

L’inglese non rispose. Impassibile, rimase a guardarlo.

Caroline, accanto a lui, sentì un brivido su di se.

Il mostro si era dunque rivelato.

Angelo sembrò accorgersene, e puntò su di lei i suoi occhi sanguigni:- E’ tutta colpa tua…tutta….tu, traditrice…-

Ma anche Caroline, alla fine, rimase impassibile dinanzi all’esternarsi di quella follia.

Un piccolo gruppetto era uscito dalla chiesa in quel momento, e restava sulla soglia, ad assistere.

Cunningham tornò a guardare la strada, volgendo le spalle a Conti.

Dentro di lui, sentiva il battito accelerato del cuore, il movimento delle fronde degli alberi vicini, mossi dal vento leggero, si confondeva con quello delle sue emozioni.

Il suo animo era tutto un ribollire di sensazioni e sentimenti.

Un profumo lieve lo colpì alle narici, ma non seppe riconoscerlo.

Fece un passo verso la strada.

L’aria si era improvvisamente raffreddata.

Con la coda dell’occhio, vide Caroline in procinto di dire qualcosa, sconvolta tutt’a un tratto.

Non riuscì a rendersi conto di quanto stava accadendo.

Poi, il sordo rumore di uno sparo fendette l’aria.

Stormi di colombi si alzarono in volo all’unisono, smuovendo le fronde come un piccolo uragano.

Cunningham sentì un dolore lancinante alla schiena, poi al petto.

Si voltò nuovamente.

Angelo Conti teneva ancora la pistola puntata contro di lui, il braccio tremante.

Il dolore si fece più acuto.

Digrignò i denti, in una smorfia di sofferenza, mentre cadeva in ginocchio, sotto gli sguardi inorriditi dei presenti.

La folla, attirata dal rumore, accorreva dalla chiesa.

Angelo lasciò cadere la pistola, ormai completamente fuori di senno.

- Andrew!- urlava Caroline, le lacrime agli occhi, mentre lui si accasciava a terra, gli occhi al cielo.

Iniziò a sentire sempre più freddo.

- Caroline…- disse lui, mentre la vista del bel viso gli si offuscava sempre più.

Le toccò, con una mano, i lunghi capelli biondi:- Vivi, Caroline…..non ti fermare….mai.- le disse, con un filo di voce.

Le lacrime iniziarono a scendere, inarrestabili.

- Non puoi morire così…- gli disse lei.

- Oh…si che posso, Caroline. Questa è la mia espiazione, questo è il mio perdono.-

Tossì.

Sentì qualcosa sfiorargli il viso.

Tra la nebbia che gli oscurava gli occhi, poté vedere piccoli fiocchi di neve cadere dal cielo.

Per una frazione di attimo, ritornò ad Alton, al fatidico giorno del primo incontro.

Ora quasi tutti guardavano in altro, verso il cielo bianchissimo.

Solo Caroline sembrava non curarsene.

- Neve…- le sussurrò lui.

- N-non è possibile…- balbettò la ragazza tra le lacrime:- E’ agosto!-

Eppure la neve cadeva, lentamente, silenziosamente, si poggiava dappertutto. Allora Cunningham, nell’ultimo istante, capì.

-Il mostro, Caroline……il mostro- disse.

- Quale mostro?- singhiozzava Caroline.

Con le ultime forze che gli restavano, accarezzò il viso della ragazza:- Quello che covava dentro di me….e dentro di te…..quello che loro ci hanno fatto nascere dentro…è morto….sono libero, finalmente, Caroline….-

La ragazza allora comprese le parole del moribondo. Smise di piangere, e gli prese la mano nella sua:- E’ morto anche dentro di me, Andrew.-

- Eleanore…- Cunningham d’un tratto sospirò:- Oh…Eleanore…-

La mano scivolò lentamente giù, a terra.

Sorrise, un sorriso di serenità. E poi tacque.


Arturo pubblicato il 02.09.2012 [Testo]


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