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Uno scritto a caso

Un incontro
[scritto]
Jacopo Carlo Marone
16.04.2008

Colloquio con il detenuto 5639


"Ore 9:30,Ospedale criminale di P . Il detenuto N°5639 ripercorre, con l'aiuto dello psicologo, alcuni momenti della sua vita. Riportiamo qui parte del colloquio.

"Alle elementari, se non facevo i compiti, la maestra mi sbatteva la testa contro la lavagna. Oppure mi lasciava in piedi, dietro la lavagna, per tutta la mattina. In quel caso, mi divertivo a fare le facce buffe ai compagni. Finché non venivo scoperto e di nuovo sbattuto contro la lavagna. Ma non ci facevo caso. Mentre succedeva, pensavo ad altro: ormai mi ero abituato".

"Torniamo a noi. Perché non mi parli della sera prima..."

"Ero seduto sui gradini del bar, insieme alla cricca, di fronte alla Piazza dell'Incontro, come tutte le sere. Non avevamo niente da fare, come al solito. Guardavamo gli altri ragazzi che passeggiavano per il corso. Ma lo facevamo come fossero dei nostri sottoposti, con aria arrogante, di sfida. Le ragazze poi, le prendevamo in giro e, nello stesso tempo, tenevamo l'aria di chi avesse concesso loro un gran privilegio nel rivolgergli la parola. Non ci importava di ricevere qualche risposta amara. Ci limitavamo a risederci sui gradini del bar, sorridendo. L'importante era farsi vedere sempre all'altezza della situazione. Non mostrare alcun segno di cedimento".

"Accanto al bar c'era una pizzeria. Intorno alle nove mi alzai ed entrai in questo locale. Mi fermai davanti alla bancone con le pizze e ne ordinai una con le patatine fritte. Il pizzaiolo - somigliava vagamente ad Al Pacino - mi chiedeva sempre se volevo ketchup o maionese.

"Maionese".

"Te la scaldo?"

"No, non c'è bisogno".

Presi la pizza, avvolta in un paio di fogli di carta, ed andai a sedermi su uno degli sgabelli liberi, vicino la finestra. Iniziai a pensare: che strano, proprio davanti a questa pizzeria ho assistito, per la prima volta, ad una lite vera".

"Ecco. Ti sei seduto alla finestra e ti è venuto in mente quest'episodio?"

"Sì . Mi misi a pensare a quella domenica. Ero seduto sul muretto della piazza, di fronte alla pizzeria. Era quasi mezzogiorno e stavo per tornarmene a casa, a mangiare. La piazza era semivuota. Quasi tutti erano già a casa per il pranzo. Pensavo di rimanere ancora qualche minuto, poi me ne sarei andato anch'io.

C'era un sole pallido in cielo - lo ricordo benissimo. Poche auto per la strada. Anche la messa del Duomo era ormai terminata. Dietro di me sentivo parlare alcune persone, sedute sulle panchine di pietra. I due uomini più vicini stavano discutendo delle prossime elezioni.

Guardavo distrattamente la strada. Un ragazzo venuto dal corso si avvicinava lentamente. Teneva le mani nelle tasche del suo giubbotto di pelle. Aveva un'andatura dondolante, lo sguardo fisso per terra, sulle sue scarpe. Con le labbra abbozzava un timido sorriso. Dopo che mi passò davanti, continuai a seguirlo con lo sguardo.

Nella direzione opposta a questi, veniva Girolamo, un tipo secco e spigoloso, con la pelle lucida ed abbronzata ed i capelli cosparsi di gel. Indossava una giacca di pelle e puntava dritto verso il ragazzo che era appena passato. Quando gli fu vicino, lo prese per il petto e, senza una parola, lo colpì con un pugno alla testa, spingendolo indietro. L'altro aveva ancora le mani in tasca. Girolamo continuò a colpirlo sul viso, che diventava sempre più violaceo. Girolamo colpiva con forza, gridando parole che non riesco più a ricordare, mentre l'altro cercava di coprirsi.

Pensai che era strano vedere quei due litigare. Sembrava che non ci fosse posto per loro, in quel giorno di quiete. Mi fecero la stessa impressione di una bomba, esplosa vicino a me, di una specie di terremoto. Stranamente, mi sentivo eccitato e, nello stesso tempo, impaurito. Ripensandoci, mi sembrava come la manifestazione di una verità che prima mi era rimasta nascosta. Per la prima volta pensai: ecco due persone che fanno a botte sul serio. Mi chiesi allora cosa sarebbe successo se, in quel momento, fosse passata una volante della polizia. Evidentemente Girolamo non aveva paura della polizia. Eppure il ragazzo che lui picchiava aveva un'espressione così pacifica, così innocua... Cosa mai poteva aver fatto per meritarsi questo? E poi così , davanti a tutti: chissà che vergogna doveva provare. Sarebbe riuscito ad uscire di casa, il giorno dopo? Sarebbe ritornato a passeggiare sul corso?"

"Il pizzaiolo - quello che somigliava ad Al Pacino - era sulla porta del locale ad osservare la scena. Per curiosità, mi girai a guardare i due uomini dietro di me. Erano in piedi anche loro, intenti a guardare. Sembrava non finire mai".

"Che vuoi dire?"

"Non lo so. Mi sembrava che quella scena si fosse impressa per sempre nella mia mente. Come una fotografia. Forse è per questo che mi sembrava non finire mai".

"Dopo alcuni colpi, Girolamo si era fermato. Era rimasto immobile - respirava affannosamente - a guardare quel ragazzo con la faccia violacea. Rimase così alcuni secondi poi si voltò e se ne andò nella direzione opposta a quella cui era venuto. Il ragazzo era frastornato. Forse sentiva che tutti lo stavano guardando. Che tutti, in quel momento, stavano pensando a lui. Dopo qualche attimo di esitazione, anche lui girò sui suoi passi e tornò verso il corso.

"Una volta scomparso dietro l'angolo, la domenica sembrò tornare al suo ritmo naturale. Come se quella scena non avesse mai avuto luogo. Il pizzaiolo tornò dentro. I due uomini, dopo qualche commento sbrigativo, tornarono a sedersi e a discutere di politica. Saltai giù dal muretto e presi la via di casa. In cuor mio però, pensavo ancora a quello che era successo. Era stata la mia prima volta. Come la prima volta che ho fatto l'amore, o che ho assistito ad uno spettacolo. Ecco: una prima visione come quelle che guardavo al Politeama".

"Mi chiedevo se sarei stato capace di colpire così violentemente un'altra persona, senza farmi prendere dal panico. Se sarei riuscito a trattenere il cuore e a rallentare il respiro. Fino ad allora mi ero sempre limitato a spingere, al massimo a dare un calcio a qualche compagno di classe. Non sapevo se sarei mai riuscito a fare a botte sul serio. Fino ad allora gli altri mi avevano lasciato stare. Ero riuscito a rimanere invisibile, a non farmi notare. Ma non sapevo se, messo alle strette, sarei riuscito a rompere così violentemente la quiete di una domenica mattina".

"Bene. Questo punto mi è abbastanza chiaro. Ora passiamo ad altro. Per esempio, non mi hai detto niente dei ragazzi della cricca. Come li hai conosciuti?"

"Fu una coincidenza. O forse no. Accadde in un pomeriggio come tanti, passato a fumare Marlboro in sala giochi. Due ragazzi più grandi importunavano un bambino, chiedendogli delle monete. Padron 'Ntoni era seduto al suo banco. Fumava e guardava la televisione.

"Padron 'Ntoni? Padron 'Ntoni..."

"Era il gestore della sala giochi. Dopo la morte della moglie aveva aperto quella sala giochi e aveva anche iniziato a scrivere poesie. Scriveva versi in dialetto. Aveva incorniciato un suo componimento e l'aveva affisso al muro, proprio dietro il bancone, cosicché tutti quelli che andavano a cambiare i soldi l'avrebbero notata..."

"Bene"

"Dicevo, due ragazzi più grandi di me - erano due della cricca - confabulavano dietro quel bambino. Ogni tanto uno dei due, senza farsi vedere, gli tirava uno schiaffo sulla nuca. Il bambino sembrava agitarsi ed innervosirsi. Io me ne stavo a fumare in un angolo, ma potevo sentire i discorsi di questi due e degli altri ragazzi nella sala. Avevano deciso di andare a fare un giro al porto, per tirare un motorino; per vedere cioè che velocità raggiungeva - al porto c'era una lunga strada diritta che si prestava bene allo scopo. Ma erano in cinque, con due motorini. Quindi, uno di loro sarebbe rimasto fuori dai giochi".

Il capo della cricca, Melo, un ragazzo molto grasso, si girò verso di me. Poi lanciò uno sguardo ad un altro del gruppo, come per capire cosa ne pensasse, e mi chiamò".

"Tu, vieni qua"

Andai - a malincuore. Sapevo che non dovevo mostrarmi pauroso. Mi avrebbero preso in giro. Sarebbe stata la fine. Sarei diventato lo zimbello di tutta la sala giochi. Come quel bambino che stavano importunando. Mi avvicinai al gruppetto.

"Che c'è?"

"Abbiamo bisogno di un favore"

Lo disse in maniera quasi annoiata. Come se fosse scocciato di dover chiedere qualcosa. Come se a lui fosse tutto dovuto e quello era uno strappo alla regola. Si girò a guardare gli altri, ridacchiando. Poi, improvvisamente, cercò di colpire uno dei suoi compagni, così , per scherzo. L'altro però riuscì a scansare il colpo. Poi si girò di nuovo verso di me.

"Hai un motorino? Dobbiamo andare al porto, a tirare il suo..."

Indicò il ragazzo dietro di lui, che prima aveva tentato di colpire.

"... Però abbiamo solo due motorini e siamo in cinque. Dovresti venire con noi. Mi pare che non hai tanto da fare. Non ci vorrà molto. Il tempo di vedere quanto gli fa quel ferrovecchio".

Pensai di poter rifiutare. Avevo paura, ma pensavo che nessuno mi avrebbe costretto ad accettare. C'era Padron 'Ntoni, che più di una volta era intervenuto a difendere quel bambino. Pensavo di essere libero di rifiutare. Allo stesso tempo però, mi sentivo orgoglioso di quella richiesta. Sapevo che si erano rivolti a me solo perché avevano bisogno di un motorino. Tuttavia mi sentivo orgoglioso di parlare con quei ragazzi più grandi; ragazzi che in paese tutti rispettavano. Anche a me sarebbe piaciuto godere di quel rispetto - un misto di paura e ammirazione. Erano ragazzi che nessuno infastidiva e che pensavano agli affari loro.

Pensai che, forse, se avessi accettato, mi sarei guadagnato la loro stima. Forse mi avrebbero salutato incontrandomi per la strada; avremmo scambiato qualche parola; mi avrebbero coinvolto nelle loro faccende. Forse la gente, vedendomi con loro, avrebbe iniziato a guardarmi sotto un'altra luce. Avrebbero iniziato a guardarmi come qualcuno da rispettare.

Per dirla tutta, avevo paura e, nello stesso tempo, mi sentivo eccitato all'idea di andare con loro. Accettai.

"Va bene. Quando volete, possiamo andare".

Fu così che entrai a far parte della cricca. Quasi senza accorgermene. Nel giro di poco tempo, mi sarei trovato tutte le sere davanti al bar, con quei ragazzi - tutti più grandi di me.

"Hai notato qualche cambiamento in te, nel tuo comportamento, che puoi ricollegare a queste persone? Anche una cosa che ti sembra stupida, un piccolo particolare"

"Mi sentivo più importante. E più rispettato. Sentivo che le persone mi guardavano con rispetto, quasi con timore. Però, come cambiamento, l'unica cosa a cui posso pensare riguarda il fumo. Da quando iniziai ad uscire con quei ragazzi, presi a fumare liberamente, seduto sui gradini del bar. Prima lo facevo solo di nascosto, in sala giochi, per paura che mio padre mi vedesse, o che qualcun altro andasse a riferirglielo. Uscendo con quei ragazzi invece sapevo che nessuno si sarebbe permesso di farlo. Nessuno sarebbe andato a cantare da mio padre.

"Ti fidavi di loro? Li consideravi dei veri amici?

"A dir la verità, non ero sicuro di quello che avrebbero fatto per me. Voglio dire, fino a che punto sarebbero arrivati. Se avrebbero fatto a botte per me. Non potevo saperlo con certezza. Del resto, non avevamo molti punti in comune. L'unica cosa che ci accomunava era il non sapere come passare le giornate. Però c'era una cosa che mi incuriosiva. Non riuscivo a capire - non riesco tuttora - come facessero a stare senza una ragazza. Non li avevo mai sentiti parlare di una donna, che non fosse qualcuno della televisione o qualche attrice di film porno. Già. Questa era un'altra cosa che ci accomunava: la pornografia. Mi viene in mente un episodio a proposito. Non so però quanto sia attinente con la nostra discussione".

"Non ti preoccupare"

"Un giorno - ero alle medie - non andai a scuola. Insieme alla cricca, salimmo sulla littorina per Palmi. Era mattina presto e il vagone era pieno di studenti delle superiori che andavano a scuola. Dopo circa venti minuti di tragitto, scendemmo alla stazione di Palmi e, mentre tutti gli altri si recavano a scuola, noi andammo in centro, in una sala giochi, dove passammo tutta la mattina. Prima di tornare a Gioia, fu Melo a proporre di andare a comprare uno di quei giornali.

"Eri solito leggere questo tipo di riviste?"

"Al contrario: non l'avevo mai fatto. Probabilmente perché mi vergognavo. Avevo però una vaga idea del contenuto, anche se nessuno mi aveva mai spiegato niente al riguardo. Tutto quello che sapevo lo avevo carpito dalle conversazioni dei ragazzi più grandi".

"Di solito questi giornali si trovano nella parte posteriore dei chioschi o in una posizione meno centrale. Mi ricordo che ognuno di noi comprò un giornale. Gli altri si comportavano come se stessero acquistando una rivista come tutte le altre. Invece, io non riuscii a guardare l'edicolante negli occhi".

"Tornammo a Gioia con il treno di mezzogiorno. Ed io potei tornare a casa alla solita ora. Come se fossi uscito da scuola. Avevo il giornalino nella cartella, chiuso in un libro. Fremevo dall'attesa di poter sfogliare quel giornale ma, nello stesso tempo, avevo paura di essere scoperto".

"Finalmente, verso metà pomeriggio, rimasi da solo in casa. Aprii la cartella e tirai fuori il giornale. Mi sedetti in camera, sul letto, e iniziai a sfogliarlo con curiosità ed eccitazione. Guardare quelle foto mi piaceva. Ad un certo punto però, mi spaventai. Mi ero accorto infatti che mi si stavano gonfiando i pantaloni. Capii che dipendeva dal guardare le foto, ma rimasi comunque molto sorpreso. Era la prima volta che guardare una donna mi procurava una sensazione così forte. Certo, non avevo mai visto una donna nuda, prima d'allora, eccetto mia madre o mia sorella; e se non consideriamo quelle in costume da bagno. Fu una scoperta sensazionale. Mi sentivo come se tutto quello che avrei voluto sapere, tutto quello che i miei genitori non mi avevano mai spiegato, mi venisse rivelato dal mio corpo stesso. Era come se il mio corpo mi stesse parlando: non dovevo fare altro che starlo a sentire".

"Subito però pensai: cosa sarebbe successo se i miei genitori mi avessero trovato così , con questo rigonfiamento? Tremavo. Mi stesi sul letto, bocconi, e cominciai a toccarmi, mentre guardavo le foto sul giornalino".

"Pensavi a qualcosa di specifico in quei momenti? Qualche immagine?"

"Ricordo che mi vennero in mente mia madre e mia sorella. Fui spaventato da quei pensieri. Cercai di allontanarli, ma ritornavano, sovrapponendosi a quelle delle foto sul giornale. Poi mi venne in mente una mia compagna di classe...L.. Infine pensai ad una vicina di casa, la madre di un mio amico. Una volta la vidi spogliarsi alla finestra. Questo pensiero accese la mia fantasia. Era quello di cui avevo bisogno. Sentivo il calore espandersi sul mio viso. Avrei voluto con tutto me stesso essere il protagonista di quelle foto, essere con una donna, essere con la mia vicina di casa. Mi piaceva l'idea di stare con una donna più grande di me, con una madre. Capii che stava per accadere qualcosa. Mi spaventai. Avrei voluto fermare il tempo, bloccare l'istante, ma una sensazione fortissima, come un forte spavento, si era impossessato di me e mi faceva tremare, mentre mi bagnavo i pantaloni. Ricordo che mi batteva forte il cuore. Che mi era sembrato di morire. Avevo avuto paura di morire. Mi sentii stanco, esausto; sfinito come se avessi ingaggiato una lotta con l'aria... Forse questi particolari non le interessano..."

"Non pensare a questo. Devi sentirti libero di parlare di ciò che vuoi. Concentrati però sull'argomento centrale della nostra discussione..."

"Giusto".

"Parlami di quella mattina"

"Bene. Era una mattina di settembre. Avevo avuto un sonno agitato e, appena sveglio, rimasi per un po'fermo nel letto, sotto le coperte, come indeciso se alzarmi o meno. Pensai che tanto sarebbe stata una giornata uguale alle altre - senza scopo, senza meta - che dovevo affrontare per far passare il tempo. Vivevo in attesa di qualcosa - un evento - che cambiasse per sempre la mia vita".

"Non eri andato a scuola?"

"Avevo deciso di non continuare. Non sapevo allora che, finiti quegli anni, sarebbero finiti anche i momenti perfetti. Dovevo trovarmi un lavoro. Non sapevo ancora cosa volessi fare, ma non avevo molta scelta. Potevo lavorare alla Sidac, una fabbrica dove si lavoravano gli agrumi; aiutare mio padre all'officina; fare il manovale, il cameriere - non l'avevo mai fatto - o andare a lavorare al porto. Mi ritrovai invece a passare sempre più tempo con quelli della cricca, seduto sui gradini del bar o in giro con i motorini oppure in sala giochi. Iniziai a pensare che la mia vita si stesse spegnendo, piano piano. Non c'erano più momenti perfetti. Fumavo molte sigarette. Iniziai anche a bere. Guardavo gli altri e mi sembravano tutti più felici di me. Mi sentivo vittima di una qualche ingiustizia, di qualche oscura trama. Bestemmiavo per questo. Ma torniamo a noi.

"Mi resi conto però che quello non era un giorno come gli altri. Quello era il giorno. Iniziai a preoccuparmi. Andai in bagno e mi fermai a guardare il mio volto riflesso nello specchio. Pensai: è arrivato il momento. Era quella la mattina in cui dovevo dimostrare di non aver paura. Sapevo che prima o poi quel momento sarebbe arrivato, anche se speravo il più tardi possibile..."

"Aspetta. Hai parlato di momenti perfetti. Mi sembra di capire che prima, prima di finire la scuola, eri felice. Poi invece... E' così ?".

"Era piuttosto il sentirsi felice. L'idea di avere tutta la vita davanti, tutte quelle possibilità. L'idea di poter fare tutto, l'idea di onnipotenza. Non ero felice per qualcosa in particolare. Non era l'andare a scuola, lo stare con i compagni. Ero felice di essere, di esistere, non so spiegarlo bene. Ero felice, forse, perché mi sentivo innamorato..."

"Innamorato?"

"Già. Di una mia compagna della medie. Quanto mi piaceva! A volte abbiamo anche studiato insieme. Ma non le dissi mai niente. Anche se ogni volta che mia avvicinavo a lei sussultavo; ogni volta che ci sfioravamo, mi batteva forte il cuore. Avrei fatto di tutto per quella ragazza. Ecco: ogni volta che c'era lei era un momento perfetto. Ogni cosa era al posto giusto. Ogni volta che pensavo a lei ero felice".

"Finita la scuola però, non l'avrei più rivista. Tranne poche volte, sul corso. Ci salutavamo da lontano, senza fermarci, come due stelle che hanno paura di una collisione. Poi, un giorno, seppi da mia madre che si era fidanzata in casa e che presto si sarebbe sposata. Mi resi conto allora che tutto stava passando, tutto era ormai passato, stava morendo, veniva dimenticato. Tutto cadeva nell'oblio... La mattina. Uscito dal bagno, andai in cucina, a fare colazione. Mia madre era già sveglia e mi fece la solita domanda".

"Hai dormito bene?"

"Sì "

Prese un pentolino, vi versò un po'di latte e lo mise sul fuoco. Poi preparò la macchina da caffè e la mise sul fuoco. Mentre aspettavo che il mio caffelatte fosse pronto, mentre mia madre mi dava una tazza ed un cucchiaino, guardai il camino, in un angolo della cucina. Sopra vi era appeso un vecchi orologio, fermo da anni. Poi guardai mia madre, di spalle, mentre preparava la mia colazione. Aveva un grembiule allacciato alla vita, i capelli sistemati con delle mollette. Le sue membra sembravano rigide. Sul collo notai la simmetria di una vena. Il suo silenzio sembrava parlarmi, dire tutte le cose che non mi aveva mai detto, tutte le parole che le erano rimaste dentro. Pensai che forse erano i capelli a farla sembrare così triste. Si girò, prese dei biscotti da uno sportello e li mise sul tavolo. Poi uscì dalla stanza".

"C'era un televisore in cucina. Un vecchio televisore in bianco e nero, senza telecomando. Lo guardavo. Mi sembrava curioso guardare un televisore spento..."

"Che cosa pensavi in quei momenti?"

"...Pensieri? Pensavo che ero figlio di un meccanico e di una casalinga. Pensavo che mia sorella studiava all'università e aveva un fidanzato. Mi chiedevo: se fossi stato anch'io un figlio di papà? Ci sarebbe stato qualcuno che mi avrebbe preso in giro? Sarebbe stato tutto più facile, più semplice? Pensavo: come ero arrivato a questo? Mi ero lasciato trascinare. Tutto era iniziato quel giorno, con quel giro al porto, o forse anche prima? Mi chiedevo se ero stato io a scegliere o se non avessi mai avuto scelta, se la scelta fosse stata un'illusione".

"Da bambino avevo delle voci in testa. Ce le avevo soprattutto la notte, quando ero solo. Erano delle voci che urlavano bestemmie. Parole che io non volevo dire, che non volevo ascoltare. Nonostante cercassi di pensare ad altro, quelle frasi orrende si formavano nella mia testa continuamente e mi facevano sentire in colpa, come se fossi io a decidere di pensarle, a decidere di bestemmiare. Mi ero talmente convinto di questa colpa che avevo finito per confessarla anche al prete...Comunque, finito di fare colazione, mi alzai e tornai in camera. Non mancava molto ormai. Non sapevo ancora come avrei speso il tempo che rimaneva, che cosa avrei fatto. Potevo andare un po' al pontile. Mi piaceva respirare l'aria di mare, guardare i pescatori lavorare. Poi però lasciai stare. Non avrei fatto niente di speciale. Mi sarei comportato come tutti gli altri giorni".

"Mentre mi vestivo, ripassavo mentalmente quello che dovevo fare. Mi dicevo: non c'è motivo di essere tesi, andrà tutto bene. Per distrarmi accesi la radio. Avrei avuto tanta voglia di un altro momento perfetto! Un altro ancora, che mi alleggerisse quel fardello. Avevo sperato fino all'ultimo - la sera prima, fin sul portone di casa - che ricapitasse uno di quei momenti".

"Non mi sentivo molto in forma. Ero stanco, affaticato. La cintura era troppo stretta. Mi dava fastidio. Presi il bomber dall'armadio. Accanto, c'era la sciarpa delle brigate gioiesi, di cui avevo fatto parte per un breve periodo..."

"Brigate gioiesi..."

"Erano i tifosi della Gioiese, la squadra di calcio del paese. Militava in Eccellenza in quegli anni. Poi arrivò un ricco imprenditore e l'acquistò, centrando la promozione in Serie D. Ricordo che, improvvisamente, tutto il paese prese ad interessarsi di pallone. Ogni domenica lo stadio era pieno. Poi però la società fallì e l'entusiasmo andò scemando. Anche quello, a pensarci bene, era un segno. Come il fidanzamento di L. Qualcosa era finito, per sempre. Qualcosa non sarebbe più tornato. Bisognava vivere di ricordi".

"Uscii di casa. Mi ero accordato con Melo. Ci saremmo trovati dietro la pizzeria, gli avrei lasciato il mio motorino e sarei salito su uno scooter, un typhoon appena rubato, con marmitta e carburatore modificati. Salii sul mio motorino - un Sì - e partii verso il centro..."

"Scusa, però non ho capito come sei giunto a quel punto. Materialmente. Che cosa era successo prima?"

"Già. Me ne ero quasi dimenticato. Era stato Santino. Così era conosciuto da tutti. Un uomo alto, abbronzato, con i capelli corti ed un filo di barba. Indossava jeans strappati ed un giaccone di pelle nero della Schott. Una sera parcheggiò la sua Harley - era l'unico in paese ad averla - davanti al bar. Si tolse gli occhiali da sole e, sceso dalla moto, chiamò Melo a sé. Questi si alzò e i due si fermarono a parlare per qualche minuto. Poi Santino risalì in moto e se ne andò. Melo si risedette sui gradini e continuò a cazzeggiare, come se non fosse successo niente. Invece quando, alla fine della serata, stavo per tornarmene a casa, Melo si avvicinò e mi spiegò tutto".

"Insomma, quella mattina mi stavo recando all'appuntamento. Mentre guidavo il motorino verso il corso, cercavo di non pensare a niente. Me ne stavo seduto in modo indolente, sulla parte posteriore del sellino. E tenevo i piedi sui pedali, roteandoli a vuoto di tanto in tanto. Cercavo di non pensare a niente, ma non ci riuscivo".

"Mi venne voglia di passare da mio padre, all'officina, a fargli un saluto. Ma non avrei saputo cosa dirgli. Erano imbarazzanti i silenzi che si creavano quando ci trovavamo noi due da soli. Facevo fatica solo a guardarlo negli occhi. Non so bene perché. Forse mi vergognavo di non avere un lavoro, di stare a spasso tutto il giorno. In quel momento però avrei tanto voluto parola di incoraggiamento. Mi sentivo così debole ed indifeso. E quanto invidiavo la sua sicurezza; il modo in cui non si lasciava mai influenzare da niente".

"Arrivai in anticipo all'appuntamento. Melo non c'era ancora. Decisi allora di fare un altro giro. Entrai in via Roma - il corso. La percorsi fino in fondo e, davanti alla Commerciale, girai a sinistra, verso il bowling. Passai davanti alle aule dove avevo fatto catechismo. Poi davanti al Duomo e alla mia vecchia scuola elementare. Pensavo: adesso nella mia classe ci saranno altri bambini. La maestra se la prenderà con un altro come lui. Ci sarebbero stati altri figli di papà. Provai invidia per quei bambini. Avrei voluto essere al loro posto, tornare indietro. Quanto mi sarebbe piaciuto tornare indietro, a scuola!"

"Enzo!"

"Sentii una voce chiamarmi dal marciapiede e accostai. Era Rocco, un mio vecchio compagno di scuola delle elementari.

"Disgraziato! Dove te ne vai?"

"Facevo un giro".

"Quanto è che non ci vediamo..."

"Già".

"Hai tempo per un caffè?"

"Mi dispiace. Non posso. E' tardi. Ho da fare. Magari la prossima volta. Dove vai a scuola? A Palmi?"

"Sì . Al tecnico".

"Allora, uno di questi giorni vengo a Palmi a trovarti. Ci vediamo".

"Ripartii. Non volevo rischiare di arrivare in ritardo all'appuntamento. Tornato al luogo stabilito, trovai un typhoon blu metallizzato, con le chiavi attaccate. Appoggiai al muro il mio Sì - il cavalletto era rotto. Sarebbe andato tutto bene, come previsto. Premetti il pulsante dell'accensione ed accelerai un poco, per testarlo. Lo scooter quasi mi scappò dalle mani. Aveva un'ottima ripresa. Partii. Ripercorsi via Roma, girai nuovamente a sinistra davanti alla Commerciale e mi fermai davanti alla gioielleria Zenyth. Misi lo scooter sul cavalletto e vi rimasi seduto sopra. Mi sentivo molto nervoso. Riuscii dopo molti tentativi ad accendermi una sigaretta. Passarono circa venti minuti. Un uomo con una ventiquattrore uscì dalla gioielleria. Era il mio uomo. Lasciai che mi passasse davanti - lo seguivo con lo sguardo. L'uomo camminava con passo deciso. Guardandolo, mi resi conto che si trattava del tipo di uomo che non sarei mai diventato. Indossava giacca e pantaloni grigi, una cravatta azzurra, scarpe di pelle e portava un orologio costoso. Lo vidi fermarsi davanti ad una Lancia Dedra grigia metallizzata e cercare le chiavi nelle tasche. A quel punto decisi che era arrivato il momento. Mi slacciai la cerniera del bomber e sbottonai la tasca interna. Scesi dallo scooter e - lentamente - mi avvicinai a quell'uomo. Quando fui a pochi passi, tirai fuori la pistola e gliela puntai contro".

"Dammi la valigetta!"

"L'uomo si spaventò. Sembrava non sapere cosa fare, come comportarsi".

"Dammi la valigetta!"

"Va bene, va bene, sta'calmo!"

"Muoviti! Dammela o t'ammazzo!"

"Dovevo cercare di stare calmo, anche se il cuore mi saltava nel petto. Non riuscivo a respirare bene. Era come se il fiato si fosse fermato in gola". "

L'uomo mi porse la valigetta. Stava tremando. Era spaventato. Forse più di me. Anche a me tremavano le mani. Me le sentivo umide, sudate. Mi porse la valigetta. Mi tremavano le mani. La valigetta scivolò a terra. Fu un attimo. Mi chinai velocemente a prenderla. Abbassai la pistola per un secondo. Fu un attimo.

"Bang!"

"Il rappresentante di gioielli mi aveva sparato, all'altezza del fegato".

"Bang! Bang!"

Altri due colpi mi ferirono una gamba. Sentii una donna gridare".

"Polizia! Chiamate la polizia!"

"Stramazzai al suolo. Prima di perdere conoscenza, pensai che non era stata tutta colpa mia; e che prima di morire volevo confessarmi, ma non al Duomo, non da Don Francesco. L'ultimo pensiero che io ricordi fu per L.: pregavo che non lo venisse a sapere".


corkonian pubblicato il 03.04.2006 [Testo]


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