Una storia comune con un epilogo raro.
Seduto scomodo sopra un sasso guardava di sbieco un mondo che lo odiava, ricambiandolo con un altro odio che si sovrapponeva allo splendido panorama, offuscandolo. L'odio è così quando si ispessisce: si sostituisce alla rètina mandando impulsi visivi al cervello che si trasforma in una fabbrica di armi.
Per questo i pensieri dell'uomo contemplavano la necessità della vendetta come fosse l'unica possibile e giusta riparazione dei torti subiti, causati dalla cattiveria degli uomini.
-La legge è, o meglio dovrebbe essere, una realtà giusta, se non fosse di questo mondo e applicata in questo modo ingiusto- rifletteva iroso l'uomo, decidendo che non sarebbe ricorso ai tribunali per farsi giustizia, i quali premiavano i ricchi che potevano permettersi di ingrassare, col veleno dei soldi, avvocati e giudici al servizio dei quali la legge puniva o assolveva con una bilancia truccata.
Avrebbe affidato il suo speciale caso alla guerriglia, lei si sarebbe occupata di ristabilire equilibri mai stati, attraverso l'infallibile metodo della ripercussione restituendo, con gli interessi, colpo su colpo.
Colui che era stato notabile a lungo, in quel paese, gli impediva l'accesso al suo terreno, costringendolo a trasportare sulla schiena, come se fosse stato un mulo, legna, letame, frutta, patate e Dio sa cos'altro, per un impervio pendio che gli aveva destinato come unico e non accessibile passaggio. I vicini addestravano i loro cani a urlargli contro così da non concedergli pace nel giardino della propria casa, e ridevano dietro quella loro cagnàra.
Lui era circondato dall'odio, come avrebbe potuto non esserne contagiato?
Di fronte abitava una strega che arrampicava rovi attorno alla sua casa, soffocandogli i residui bagliori di luce. All'altro lato era assediato dal ringhio di rabbia di altri che gli vomitavano addosso il male genuino, e tutto il resto del paese era stato convinto dall'instancabile lavorio di un pettegolezzo calunnioso, serpeggiante sotto gli affreschi di una chiesa del seicento, di una cattiveria che mai questi avevano udito prima, nei quattrocento anni passati a detestare l'opera del maligno.
Ora a lui pareva che non ci fosse altra scelta per uscire da quell'incubo, pur nella consapevolezza che la guerra, silenziosamente dichiarata al male, lo avrebbe reso complice di quello stesso male.
Il male puro non esiste, ma c'è il bene che può essere puro e di quest'ultimo il male costituisce solo l'infezione la quale, quando è guarita, ricompone un nuovo bene che diventa perfetto, ma di una perfezione diversa e più bella la quale, per subire di nuovo la corruzione, ha bisogno di un male più forte di quello che l'ha preceduto.
In questa ciclicità si innestava la sua paura, perché non avrebbe voluto essere colui che aiutava il male a diventare più forte di quello che già era, ma non vedeva alternative più dignitose del piegarsi senza speranza.
Il lago sotto, che muoveva di onde il paesaggio davanti ai suoi occhi, si vestiva di un rosso riflesso nel tramonto della sua coscienza, e i riccioli candidi delle onde si trasformavano in schiuma irosa, per rammentargli la facilità con la quale le forme belle si sarebbero mutate nel loro avversario.
Erano mesi che immaginava di farla pagare a tutti e in una volta sola, ma l'unica ragione che avrebbe potuto convincerli a radunarsi insieme, facendo loro vincere il disgusto che ognuno provava per la vicinanza dell'altro, era quella di dire loro che c'era da andare a pisciare sulla tomba del comune nemico che lui rappresentava per tutti.
Sognava di assalirli in una delle ricorrenze sacre che il paese festeggiava, e di tagliare quelle pance piene e quelle gole avide così velocemente, da non aspettare nemmeno di guardare il sangue uscire, scuro come le anime che avrebbe trascinato con sé.
In altri pensieri lo opprimeva il dubbio che la violenza avrebbe potuto annodare la sua vita con le vite senza valore di quei dèmoni, in un destino comune che si sarebbe aggrovigliato nella disperazione dell'odio.
Questa vita, che lui considerava un accidente malato dal non avere ragioni per essere, quando scrutata con quella finalità assassina, gli mostrava collegamenti e ripercussioni che la quotidianità normale nascondeva: ogni azione cattiva avrebbe prodotto, con evidenza, una reazione di complicazioni angoscianti che portavano, tutte, alla conseguenza dell'impossibilità che il male ha di essere impunito. Era come se la verità fosse in tutti i luoghi, pronta a rivelare ogni crimine attraverso un'intelligenza che il male non possedeva, e più il pensiero si arrovellava nel cercare soluzioni alle complicazioni, più queste si complicavano e la verità, accorgendosene, le rivelava gridando più forte.
Senza avvedersene, il livore che cresceva in lui costrinse la sua mano a tagliarsi sulla lama con cui stava togliendo la scorza di una mela, e questa si colorò di un improvviso fuoco rosso, ma era un fuoco capace di oscurarsi presto, anche più in fretta di un tramonto.
Come tutto mutava al variare della mente, e come la mente cambiava i propri pensieri che nascevano puri quando l'intenzione, loro madre, era stata pura, o infetti nel nero dell'ombra di sé.
Quel giorno il lato luminoso del suo essere gli fece, sottovoce, una domanda:
-Se uno di loro si ferisse seriamente e ti chiedesse aiuto, che faresti, lo lasceresti morire?-
La risposta che diede dentro di sé gli impose di chiudere il coltello con una rinnovata volontà di pace, lavò via il sangue dal frutto e lo morse senza più togliere la buccia. L'avrebbe mangiato così , oggi, con il duro amaro attorno che la verità obbliga a digerire per essere gustata davvero.
Massimo Vaj
pubblicato il 17.11.2008 [Testo]