UNA NOTTE NERA, POI L'ALBA
Un sabato sera come tanti altri per la ricca
e gaudente gioventù del centro di Molochia. A cena in qualche lussuoso
ristorante, un bicchierino nel locale preferito e poi la discoteca, oppure una
corsa in auto fino ai check-point che davano accesso alla Merdopoli, per
l'allegro giro nelle vie della prostituzione, logicamente bandita dal centro e
dalla zona B.
"Siamo a posto, capo?".
"Sì , tutti registrati. Ecco il vostro
talloncino per il rientro: non perdetelo".
"Tranquillo, capo, siamo ragazzi con la testa
sulle spalle".
La barra d'acciaio si sollevò, e una Gluteo
nera di grossa cilindrata fece ingresso nella Merdopoli. Fu il ragazzo che ne
era alla guida a tranquillizzare l'ufficiale di confine delle Forze di
Protezione; con lui, in quell'auto che procedeva lentamente, altri due amici.
Tutti e tre sembravano molto eccitati per il fatto di trovarsi nella Merdopoli,
e con sguardi avidi ne osservavano le strade buie e gli edifici, sperando di
scorgervi il più presto possibile i primi segni di ciò che stavano febbrilmente
cercando: una persona da umiliare, magari pure pagandola affinché soggiacesse a
qualche gioco erotico proibito.
I tre
amici conoscevano bene quelle zone, quei quartieri; ora, infatti,
la Gluteo
percorreva i viali dove si prostituivano le trans, - allegre, chiassose, in
perizoma, bellezze statuarie su vertiginosi tacchi a spillo. I tre non stavano
più nella pelle; gomiti poggiati sui finestrini abbassati, ridevano di quel
variopinto dolore da marciapiede. E, oltre alle battute volgari e agli insulti
rivolti a quelle persone di categoria inferiore, urlavano ferocemente verso di
esse, forse per esorcizzare una recondita frustrazione, per sfidare e
sbeffeggiare una lontana paura, per dare sfogo a un desiderio ignoto e
inconfessato. Eppure, non si trattava di bambini; stiamo parlando di gente
intorno ai trent'anni che, nei momenti di pausa tra un insulto e l'altro,
all'interno dell'abitacolo conversava più o meno così :
"Ve l'avevo detto che mio padre è tornato
dall'Africa due giorni fa? Voleva come posacenere la mano aperta di un gorilla
e, grazie alla sua passione per il bracconaggio, se l'è procurata e ce l'ha
portata a casa!".
"Cazzo! Fico!".
"Sì , ma poi ha dovuto anche ammazzare un tale
che faceva la guardia nella riserva e che si lamentava perché gli erano rimasti
solo due scimmioni in quel territorio, e balle varie".
"Fatto bene. Il mio vecchio, invece, se l'è
spassata con una undicenne in Thailandia, una vacanza da sogno. Ha promesso che
ci porterà anche me, la prossima volta!".
Con lo stereo a tutto volume, l'auto sbucò in
un rondò, al centro del quale sorgeva una contorta riproduzione in cemento di
quattro alberi, che, soprattutto da lontano, ricordava le corna di un cervo. In
questo parchetto di cemento vi erano anche due panchine di ferro; su una di
esse, con le braccia conserte e le gambe allungate, immobile, sedeva un ragazzo
apparentemente intento ad osservare i ferrei spunterbi dei propri anfibi in
grezza tela cerata. Nessuno poteva notarlo, si trovava nel punto più buio dello
spartitraffico che abbiamo or ora descritto. A poca distanza da lui, sul margine
della strada, sotto la luce dei lampioni, Victoria. Lunghi capelli neri e mossi,
seni generosi bene in vista, minigonna in jeans, tacchi alti, carnagione scura e
un minuscolo difetto nel tanga. I tre amici la notarono subito e puntarono in
sua direzione. Lei lo capì e, mani sui fianchi, assunse una posa accattivante.
Ma l'auto, di colpo, accelerò e passò a gran velocità su una pozzanghera a poca
distanza dai piedi di Victoria, che si ritrovò inzaccherata fin sopra alle
ginocchia. I tre della Gluteo risero fragorosamente e, sgommando, fecero il giro
del rondò, per poi frenare bruscamente al cospetto di colei che avevano preso di
mira.
"Scusaci, non l'abbiamo fatto apposta. Di
dove sei?".
"Vengu
di paese lontano", rispose imbronciata Victoria.
"E quanto vuoi per farci un pompino a tutti e
tre?".
Stava per illustrare il suo tariffario,
quando dal finestrino posteriore partì un grosso sputo che terminò la sua
traiettoria finendole sull'avambraccio. La Gluteo ripartì a razzo, nel suo abitacolo si
poteva assistere ancora a scene di grande ilarità, tutti si spanciavano dalle
risate! Victoria estrasse dalla propria borsetta un fazzolettino di carta e si
pulì , con un'espressione che definire triste sarebbe assai
poco.
Per
qualche secondo sembrò che le acque si fossero calmate; i tre abbandonarono la
piazza e presero una stradina laterale. Poi la Gluteo ricomparve, percorse
a tutta velocità mezzo rondò e, quando transitò nuovamente davanti a Victoria,
da uno dei suoi finestrini venne scagliato con violenza un sasso che la colpì
appena sotto il ginocchio.
"Frocio di merdaaa!", si sentì gridare
dall'abitacolo di quell'auto, che stavolta sparì dal rondò
definitivamente.
Victoria, quasi d'istinto, zoppicando, mosse
qualche passo dietro l'auto dei tre amici, imprecando coi pugni levati verso il
cielo. Ma dopo pochi metri si fermò e incominciò a piangere sommessamente,
osservando la linea rossa che le rigava lo stinco fino al dorso del
piede.
Ma, si sa, le disgrazie non arrivano mai da
sole, soprattutto per le creature più deboli e sfortunate. Così accadde che la
reazione scomposta di Victoria (solo quella, naturalmente) non sfuggì all'occhio
attento della legge, cioè a una squadra delle Forze di Protezione in un mezzo
blindato di pattuglia nella Merdopoli. In men che non si dica, quella povera
persona venne circondata, e vide puntate attorno a sé le canne traforate delle
armi a lunga gittata di quel drappello di protettori dell'ordine. Non tentò
alcuna difesa o spiegazione, la colpevole era sempre e comunque lei; del resto,
era pure consapevole di avere a che fare con esseri umani che di umano non
avevano proprio nulla. Quindi, rassegnata, salì sul retro del mezzo blindato e
si fece condurre negli Uffici della Legge e dell'Ordine, dove peraltro sapeva
ciò che l'attendeva: si trattava di una pratica già sbrigata da lei in passato,
doveva semplicemente attendere lunghe ore in una gabbia di un metro quadrato,
per poi espletare un'umiliante formalità e tornare libera.
Quando il mezzo blindato si allontanò dalla
piazza, il ragazzo che sedeva su una delle panchine sotto gli alberi di cemento,
si alzò all'impiedi, sbadigliò, si stiracchiò, si sgranchì le gambe saltellando
e fece un po' di stretching. Nel corso degli ultimi episodi che avevano visto
Victoria in balia dei tre simpatici amici in vena di scorribande notturne, egli
non si era mai mosso dalla posizione in cui lo abbiamo descritto poco fa.
Nonostante le urla, il trambusto e le sgommate, aveva continuato a fissare gli
spunterbi dei suoi anfibi, senza mai nemmeno girare il capo per un solo istante.
Ma ora xe2x80x93come detto- s'era alzato e, furtivo come un gatto, si allontanò dalle
ombre dello spartitraffico e si incamminò lungo una via.
Pensando
a Victoria.
Ma chi era costei? Quali erano il suo
presente e il suo vissuto? A dispetto della volontà di molta gente cosiddetta
perbene, a noi fa piacere parlarne, almeno per poche righe, dato che è proprio
il silenzio che cala su certe creature a decretarne l'emarginazione, unito al
disprezzo e ai pregiudizi che hanno origine dall'ignoranza e dal turbamento, se
non addirittura da un'ancestrale paura nei confronti di chi esce dagli schemi e
viene per tale motivo qualificato come soggetto deviante.
Quando,
nel ventesimo secolo, si cominciò a parlare di transessualismo, si cercò pure di
aiutare le donne come Victoria, tentando xe2x80x93spesso invano- di favorirne
l'inserimento nella società. Poi, trascorsi circa cent'anni, le cose iniziarono
a precipitare, fino ad arrivare al tramonto del ventiduesimo secolo, cioè
l'epoca in cui si svolgono le vicende che stiamo narrando, epoca in cui le
persone come Victoria (ma non solo) venivano ghettizzate e considerate esseri
inferiori. Non potevano avere accesso alla zona B di Molochia e men che meno al
centro; vivevano dunque nella Merdopoli, assieme a tanti altri esclusi.
Victoria, come la sua cara amica Samueda, era nata (ma, forse, per essere
proprio precisi precisi, bisognerebbe dire "nato") in un punto del pianeta agli
antipodi di Molochia, in un povero villaggio nel nord di un paese tropicale. In
quella terra lontana, un tempo meravigliosa, ma ora desertificata dalla miseria
prodotta dallo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali - fino alla
loro completa distruzione, sembrava che certe cose fossero connaturate sin dalla
prepubertà nei bambini come Victoria, la quale incominciò ad assumere ormoni
femminili a partire dall'età di dodici anni, cioè non appena iniziarono
timidamente a manifestarsi in lei quegli atteggiamenti e quelle pulsioni tipiche
del genere cui ella sentiva profondamente di appartenere. E così lo sviluppo del
suo corpo procedette quasi di pari passo con quello di una qualunque altra
femmina genetica, accompagnato dai medesimi interessi: le gonne, i trucchi, la
bigiotteria, lo specchio. Trascorsi che furono altri due o tre anni, la giovane
cominciò quasi per caso il mestiere, credendo peraltro che il primo cliente
fosse un innamorato; quando questi la scaricò senza tanti complimenti, Victoria
aveva qualche moneta nel palmo della mano e niente nel cuore. Fu in questo
periodo che conobbe Samueda, in una cittadina nei pressi del suo villaggio, dove
entrambe decisero di farsi abbordare da uomini d'affari provenienti da un
continente in cui nessuno pativa la fame e tutti erano ricchi, almeno così si
diceva. Stabilito il prezzo, ci si appartava con essi, allegramente, senza
vederne la volgarità, ma solo considerandone i bei vestiti, i modi garbati e,
soprattutto, il denaro. Alcuni di questi clienti le dissero che, dall'altra
parte del pianeta, molte creature come lei avevano fatto fortuna: "Dalle mie
parti, una come te guadagnerebbe in una sola sera quello che qui racimola in un
mese". E fu in quel periodo che Victoria sentì pronunciare per la prima volta il
nome di Molochia. Decise di parlarne a Samueda, poi, stabilito con lei il da
farsi, un giorno si presentò a sua madre, l'unica persona di famiglia rimastale,
e le comunicò la sua intenzione di trasferirsi in quel ricco continente, dove
avrebbe potuto guadagnare i soldi per comprarle una casa da sogno. La madre,
ormai abituata alla baracca in cui aveva sempre vissuto, guardò Victoria con
amore e le disse con un'ineffabile saggezza che il continente ricco era il luogo
dove il bambino piangeva e la mamma non vedeva. Queste parole commoventi e, per
certi versi, sibilline colpirono nel profondo dell'anima la giovane Victoria, la
quale continuò a pensarci anche nei giorni successivi, durante il lungo viaggio
verso Molochia in compagnia di Samueda. Tutt'e due volgevano già il pensiero
alla loro terra, a ciò che era ormai alle loro spalle, e tutt'e due piangevano.
All'arrivo a Molochia, vennero prelevate dagli ufficiali sanitari delle Forze di
Protezione e sottoposte a una brusca visita medica, al termine della quale venne
loro tatuato un numero all'altezza della scapola. In seguito, furono condotte
nella Merdopoli e qui scaricate in mezzo a una strada con le loro borse. Il loro
aspetto esteriore non lasciava spazio a dubbi di sorta riguardo la loro
destinazione.
Fu proprio in quel momento che per Victoria
iniziò una nuova vita, un'altra vita, con un futuro incertissimo e un orizzonte
pieno zeppo di punti di domanda. Ma quando si è giovani, vuoi per incoscienza o
per un'inguaribile spensieratezza, si tende sempre a dare poca importanza
all'ignoto, votandosi all'ottimismo. Ottimismo che non vacillò
nella nostra
amica nemmeno quando il gestore di un alberghetto malfamato, cui si era rivolta
per avere un tetto, le fece pagare una stanza lurida senza servizi più di una
suite di un hotel di lusso in pieno centro. La medesima storia ebbe a ripetersi
quando, dopo una manciata di giorni, volle sistemarsi in un piccolo e vecchio
appartamento non arredato dalle
pareti scrostate, il cui proprietario, approfittando della condizione
dell'inquilina, stabilì per lei un esorbitante prezzo d'affitto. E Victoria, in
silenzio e senza nemmeno accennare ad alcuna timida rimostranza, lo pagò
puntualmente tutti i mesi. Non poteva parlare; le avevano fatto il favore di
accoglierla in un paese straniero, lei, trans, che si prostituiva per il piacere
di coloro che, provenienti dai quartieri ricchi di Molochia, la usavano come un
oggetto. Senza subire particolari molestie da parte delle colleghe presenti
nella zona da più tempo, riuscì a trovare in una strada della Merdopoli il posto
per far mercimonio di se stessa, per esercitare quello che in molti,
superficialmente, definivano il mestiere più vecchio del mondo, senza mai
menzionarne almeno alcune fra le più tragiche
connotazioni.
La
giornata di Victoria iniziava solitamente nelle prime ore del pomeriggio, quando
si svegliava e si alzava dal suo letto, che rimaneva costantemente disfatto.
Poi, dopo aver indossato qualche capo casual ed essersi raccolta i capelli,
inforcava gli occhiali scuri e usciva per fare delle lunghe passeggiate a piedi,
cercando di interpretare alla meglio il colore locale di quella parte della
grande metropoli che la ospitava. Ma la Merdopoli non possedeva un'identità, un'anima; era
piuttosto un babelico insieme di suoni, voci, culture e abitudini che viveva
nell'ombra rispetto al centro e alla zona B di Molochia. Spesso era capitato a
Victoria di spingersi fin quasi alla striscia d'asfalto militarizzata, che
precedeva la recinzione oltre la quale si potevano scorgere i palazzi della zona
B. Quell'intreccio di aste d'acciaio, quell'altissima barriera lontana, quel
limite invalicabile, era per lei come un monumento al quale tuttavia non
riusciva a dare un'interpretazione compiuta. Di solito, contemplava ammirata la
grandiosità di quella recinzione, di quell'opera umana capace di dividere e di
incutere soggezione, sia che la si scrutasse dalla zona B o dalla Merdopoli.
Ma poi
finiva sempre per spingere oltre il proprio sguardo, fra i palazzi della zona B,
- che non erano verdi, gialli, rosa, celesti o arancioni come nelle città del
suo paese. Qui il colore dominante era il grigio, e tutto sembrava molto più
serio rispetto ai luoghi in cui era nata e cresciuta; la disposizione dei
palazzi della zona B, la loro forma, la loro tetraggine: tutto era come
finalizzato a un unico scopo: quello di produrre, di lavorare, di contribuire
alla prosperità della parte sana di Molochia. A Molochia quasi tutti avrebbero
venduto la propria madre pur di accumulare denaro: Victoria veniva da un paese
in cui questo era solo un modo di dire, non certo la realtà quotidiana. E non
poteva sapere che, al di là del monumento all'indifferenza costituito dalla
recinzione, gli abitanti di Molochia, per far fronte alla diperazione e allo
squallore di tutti i giorni, avevano da molto tempo fatto scempio di se stessi,
annullando le proprie coscienze. Ben presto capì che qui, nella sua nuova città,
non si scherzava. Era per tale ragione che, quando tornava dalle sue passeggiate
pomeridiane, cenava alla svelta, scura in volto, e poi si piazzava davanti allo
specchio, dove si truccava mandando di tanto in tanto dei prolungati sospiri e
fissando i propri stupendi occhi da cerbiatta con perplessità, in attesa di una
risposta a una domanda che forse non esisteva, che lei stessa non sapeva
porsi.
D'abitudine, raggiungeva il suo posto di
lavoro poco dopo la mezzanotte e lì attendeva il primo cliente. I clienti xe2x80x93si
sa- sono sempre stati capricciosi e, nella loro superficialità, non si rendevano
conto che le figure che vedevano dall'auto sul ciglio della strada erano degli
esseri umani. Essi consideravano queste persone come delle cose, degli oggetti
coi quali dar
libero sfogo alle proprie perversioni, in angoli bui e nascosti. Si trattava il
più delle volte di uomini cosiddetti perbene, di frequente molto ricchi, con
moglie e figli, uomini irreprensibili per i loro collaboratori e dipendenti, ma
bisognosi di liberare le proprie inquietudini, di saziare le proprie voglie
inespresse, di soddisfare certe fantasie morbose facendole diventare realtà.
Tutto ciò naturalmente aveva un prezzo (non necessariamente astronomico, anzi) e
richiedeva la presenza di una persona-oggetto, cioè di una persona come
Victoria. Tanto per fare un esempio, una notte sì e una no, capitava sempre
qualcuno che le chiedeva di essere penetrato da lei; a questa richiesta, a
differenza di molte colleghe, Victoria rispondeva sempre di no con aria sdegnata
e si girava corrucciata dall'altra parte: era una vera donna, lei, come tale si
sentiva, e xe2x80x93ammesso che le fosse stato possibile- non le andava di recitare
ruoli che non le appartenevano, nemmeno se l'avessero ricoperta
d'oro.
Insomma,
Victoria imparò presto che lei era uno dei pochi mezzi atti a svelare le parti
più recondite e sopite dell'uomo comune, o normale che dir si voglia; il fatto
che, per carattere, non avesse alcun interesse a giovarsene in qualche maniera
e, in aggiunta (elemento tutt'altro che trascurabile), fosse pure
impossibilitata a farlo per via dell'isolamento nel ghetto della Merdopoli,
rendeva lei, come del resto le sue amiche, sempre desiderabili, - in quanto oggetti in presenza dei quali era
possibile mostrare tutta la propria vigliaccheria, senza subirne alcuna
conseguenza in termini di reputazione.
Debolezze
e miserie ne aveva viste talmente tante da poterci scrivere un libro; eppure,
ciò che l'avrebbe sempre fatta rabbrividire, sarebbe stato il ricordo del
tremendo impatto con il suo primo inverno a Molochia: di solito, ci pensava
all'alba, quando andava a dormire. Il gelo che scudisciò la sua pelle scura
quella prima volta, la colse del tutto impreparata e la fece addirittura
piangere disperatamente; non avrebbe mai potuto immaginare un freddo simile,
lei, abituata a danzare sulla sabbia ogni giorno dell'anno, nel suo paese
lontano...
Intanto, con passi felpati e decisi, il
ragazzo che stava seduto nell'oscurità del parchetto di cemento era giunto al
termine di una strada che sbucava in un vasto spiazzo, in quello che sembrava
essere una specie di enorme parcheggio. Diede un'occhiata davanti a sé e, al
centro dello spiazzo, notò le luci di un chiosco, di un punto di ristoro
ambulante. Alcuni avventori occasionali stavano consumando uno spuntino fra gli
schiamazzi, altri, forse ubriachi, sembravano sorreggersi ai tiranti della
saracinesca basculante, che ora fungeva da tettoia. Una donna grassa, dietro
alla vetrina del banco, li osservava fumando. A un certo punto, provenendo dalla
parte opposta rispetto a quella in cui si trovava il ragazzo, un grosso lupo si
avvicinò al baracchino, forse spinto dalla fame, e si fermò alle spalle di
quelli che stavano allegramente mangiando. Uno di essi si avvide della sua
presenza con la coda dell'occhio, interruppe momentaneamente la conversazione
con gli altri, si girò del tutto verso il lupo e gli tirò un calcio violento al
fianco. L'animale si scostò, emettendo un sommesso guaito, poi osservò l'umano
che l'aveva scalciato con uno sguardo ineffabile e si allontanò lentamente dal
chiosco, mentre tutti presero a ridere.
"Barry...", mormorò tra sé il ragazzo,
guardando attentamente quelle scene di lontano.
Aveva riconosciuto la sagoma inconfondibile
del suo amico a quattro zampe, il quale, ora, sembrava stesse dirigendosi
proprio verso di lui. Ma a un certo punto Barry si fermò, si fermò e sorrise,
sorrise come sorridono tutti i cani, con la bocca semiaperta e la lingua
sporgente di lato, dimenando la folta coda. Anche lui aveva riconosciuto il suo
amico.
"Beast...", gli disse con gli occhi ridenti,
dopo aver drizzate le orecchie per un attimo.
Beast,
dal suo punto di osservazione fra le ombre della notte, vide Barry rimettersi in
movimento e dirigersi verso alcune automobili parcheggiate poco distante, sulla
sinistra. Fra queste vi era una Gluteo nera. Barry ne annusò i fari posteriori,
poi guardò Beast, che annuì . Dal chiosco, sempre continuando a ridere e a
schiamazzare, tre amici iniziarono a camminare verso quelle auto in sosta: erano
proprio i tre della Gluteo, quei tre ragazzotti della Molochia bene che
umiliarono per divertimento Victoria, e che anche Barry aveva già avuto il
piacere di conoscere, dato che fu uno di loro a tirargli quel
calcio.
Beast fece un lieve cenno col capo all'amico
lupo, il quale, subito, si dileguò in silenzio. Poi, come un attore che stia per
entrare in scena, si concentrò per calarsi nel personaggio che di lì a pochi
istanti avrebbe interpretato. I tre amici erano ormai alla macchina
e:
"Salve, ragazzi!", fece lui, gioviale,
facendoli voltare con aria interrogativa verso di sé.
"Ciao", borbottarono i
tre.
"Be', ecco", proseguì Beast, fingendosi
imbarazzato e impappinandosi, "io... io vengo dal centro... come voi, suppongo... e...
ehm... m'è capitato un inconveniente... ho perso ogni contatto con la mia compagnia...
forse mi hanno fatto uno scherzo... di pessimo gusto... s'intende... e, insomma... sono
in cerca di un passaggio serio per
tornare a casa".
"Noi non torniamo adesso", rispose brusco uno
dei tre. "E' ancora presto".
"Oh, io non ho problemi di orario.
Figuriamoci! Ero uscito per divertirmi e... Non potrei unirmi a voi?... E' molto
pericoloso girare per questi quartieri da soli. E poi, diciamocela tutta, mi
avete fatto ridere un sacco con quel frocio... Ah, ah, ah, ah! Se ci
ripenso!".
A queste parole i tre mostrarono un'aria
compiaciuta e si convinsero di avere realmente a che fare con uno come loro,
vale a dire un bravo ragazzo del centro di Molochia. Come tale, non poteva che
aver parlato in buonafede; e allora i tre mostrarono verso di lui quella
solidale affabilità che in genere si esprime nei confronti di un concittadino
che, per puro caso, si incontri in un territorio straniero; risolsero dunque di
venirgli in aiuto, offrendogli la loro compagnia e un posto in auto; dopodiché,
a turno, si presentarono:
"Fonfo Svotacessi".
"Dtqquo
Raccattammerda".
"Mnaio Tirascuregge".
Subito dopo, con voce ferma, toccò a Beast
presentarsi, e disse:
"Eschilo
Destinofatale".
"Ah, ah, ah!", risero i tre. "Che nome del
cazzo! Non è di Molochia! Di dove sono i tuoi?".
"Siamo originari della
Spirfucancia".
"Ah!", saltò fuori Dtqquo. "La Spirfucancia! Conosco,
conosco".
"Ci sei stato?".
"Sì , però tanto tempo fa, e ora non è che mi
ricordi un granché...".
"Be', avrai certamente visitato Sgassada, la
capitale, con il suo celebre monumento alla tastiera, la caratteristica torre
con l'orologio senza lancette e la pittoresca piazza
Minata".
"E' vero, è vero! Sì , ora ricordo!", esclamò
entusiasta Dtqquo, mentre gli altri due, per qualche istante, lo guardarono come
per dirgli: "Ma come fai a dimenticare certi luoghi?".
Peccato per loro che la Spirfucancia non fosse
mai esistita. Dtqquo aveva detto di esserci stato e di conoscerla bene, ma solo
per non fare la figura dell'ignorante, non immaginando neanche lontanamente che
non ve ne fosse traccia in nessuna cartina geografica, e che si trattasse solo
di un'impietosa burla da parte di Beast; avendo aperto bocca, oltre che un
ignorante, dimostrò ancora una volta di essere xe2x80x93al pari dei suoi amici- un
povero stolto.
Mnaio si mise al volante della Gluteo, Dtqquo
e Fonfo, aprendone le portiere, fecero cenno al loro nuovo amico di salirvi a
bordo. Beast raccolse quell'invito facendo mostra di esserne entusiasta, e
sedette dietro il guidatore. Non appena l'auto si mise in movimento, ne
approfittò per domandare ai tre cosa prevedesse a quel punto il programma della
nottata; Mnaio, osservandolo allo specchietto retrovisore, gli rispose che
avevano due opzioni; si sarebbe potuti andare al quartiere Africa e divertirsi
con qualche negro, oppure nella zona dove sorgeva il Freak, la struttura in cui
venivano trattenuti i disabili più gravi; tutt'intorno a questa struttura, v'era
un intero quartiere popolato da down e da altre persone con handicap fisici e
mentali; esclusi dalla zona B e dal centro di Molochia perché scomodi e inutili,
questi umani coraggiosi riuscivano malgrado tutto a tirare avanti, senza l'aiuto
di nessuno, riunendosi in gruppi e consorzi autogestiti.
Naturalmente,
i tre decisero per la seconda opzione. Troppo pericoloso andare all'Africa, si
sarebbe corso il rischio di imbattersi in un negro di due metri, tutto muscoli,
che magari avrebbe potuto chiamare altri suoi amici. No, meglio dirigersi verso
il Freak e prendersela con qualcuno che si fosse attardato per strada, a patto
che fosse solo, che zoppicasse o che presentasse una qualche altra menomazione:
per certuni è molto più gratificante mostrare il proprio coraggio infierendo
contro gli inermi.
Ormai
i quattro erano in vista degli edifici che costituivano il quartiere del Freak.
Mnaio arrestò l'auto al termine di una via e fece cenno a tutti quanti di
scendere; in seguito aprì il vano
portabagagli e ne estrasse quattro grossi caschi integrali multicolori, con le
visiere a specchio; quando ognuno, compreso ovviamente Beast, ebbe indossato il
proprio casco, Dtqquo tirò fuori dal bagagliaio due mazze da baseball, e ne
consegnò una a Beast e una a Fonfo. Poi, richiuso il baule, tutti e quattro
ripresero i loro posti a bordo dell'auto e ripartirono. Fu proprio in quei
momenti, quando i tre ruppero il silenzio e presero a schiamazzare eccitati, che
Beast, senza dare nell'occhio, lasciò scivolare sotto il sedile del guidatore un
oggetto di forma cubica, nero, poco più grande di un dado da
gioco...
Un
suono orribile a tutto volume scaturiva dalle enormi casse dell'impianto stereo
e si diffondeva all'interno dell'abitacolo; per Beast era una vera e propria
tortura; ma, grazie al casco che ne celava completamente il volto, gli fu
possibile dar sfogo a tutto il disgusto che provava tramite una serie di smorfie
in piena libertà.
La Gluteo, ora, iniziò a percorrere una strada
deserta, tutte le finestre degli edifici che vi si affacciavano erano serrate,
non una luce, non il minimo segno di vita. D'un tratto, i due che stavano
davanti, cioè Mnaio e Dtqquo, si accorsero che, poco prima del termine della
via, c'era del movimento, qualcuno stava camminando sul marciapiede, quasi
rasente ai muri. Dtqquo spense lo stereo, poi, come gli altri, affissò lo
sguardo in quella figura ancora troppo lontana per essere identificata. Mnaio
rallentò; Dtqquo e Fonfo, simultaneamente, dissero:
"E' una donna".
Beast protese il busto, e la visiera del suo
casco spuntò fra i due sedili anteriori. Si trattava effettivamente di una
donna, una donna che, a giudicare dal passo e dalla postura di spalle e braccia,
sembrava stesse spingendo qualcosa.
L'auto
si avvicinò ancora, fino ad affiancare quella donna, e i quattro videro che
stava spingendo una carrozzella, sulla quale sedeva immobile un giovane uomo. La
donna, tutta vestita di bianco, guardò impaurita per un attimo verso la strada
con la coda dell'occhio. Mnaio, di colpo, accelerò, per poi sterzare
bruscamente, fino a sbarrarle il passaggio. Fonfo e Dtqquo si fiondarono fuori
dalla Gluteo, seguiti dallo stesso Mnaio e poi anche da Beast. La donna, quando
vide quei quattro con il casco, due dei quali con una mazza da baseball tenuta
minacciosamente fra le mani, rimase impietrita per il terrore, con la bocca
aperta.
"Che facciamo?", le chiese Fonfo con
arroganza da bulletto e cinico sarcasmo. "Portiamo a spasso i cadaveri?
Hm?".
La donna non rispose. Fonfo le tirò un
violento manrovescio che la sbatté di schiena contro il muro e la fece cadere a
terra, dove incominciò a piangere, e poi a fare dei gesti disperati, puntando
ripetutamente l'indice in direzione del giovane sulla carrozzella, facendo cenno
di no con la testa e congiungendo le mani in segno di supplica. Beast si rese
conto che quel giovane era un tetraplegico; e anche lui non poteva parlare; una
piccola barra rivestita di gommapiuma gli passava sotto il mento e serviva a
sorreggergli il capo; che ci fosse una vita in quel corpo, lo si capiva
unicamente dal respiro e dagli occhi. Occhi che in quei terribili momenti
esprimevano angoscia, sgomento, paura, impotenza. I tre amici, incuriositi dal
fatto che Beast osservasse con una certa attenzione quella persona sulla
carrozzella, distolsero gli sguardi dalla donna che gemeva, ancora in terra, e
gli si avvicinarono. Totalmente paralizzato, impossibilitato a difendersi: era
il loro bersaglio ideale. Accostarono le visiere a quel volto atterrito, ne
esaminarono gli occhi sgranati e il tremolio delle labbra, - quindi scoppiarono
a ridere.
"Hai paura, mostro?".
Dtqquo propose di spaccargli la testa e poi
di violentare a turno la sua accompagnatrice muta (forse sua sorella, magari la
sua compagna). Mnaio, tutto esaltato dall'idea, corse a immobilizzarla.
Fonfo, con la mazza da baseball fra le mani, fece mezzo passo indietro
e misurò
bene la distanza tra sé e il punto del cranio da colpire. Stava per procedere,
ma:
"Aspetta", gli disse Beast, con calma,
"lascia che sia io il primo".
Per Fonfo non cambiava nulla, così ,
indietreggiando ancora di un passo, cedette la mazza a Beast, che prese il suo
posto. La persona in carrozzella era ora di profilo rispetto al punto di
osservazione di Beast, il quale, a sua volta, aveva alle spalle Fonfo, a neanche
un metro di distanza. Molto lentamente, Beast prese anche lui le misure, poi,
tenendo la mazza con due mani, se la portò sopra la spalla destra, pronto a
farla partire. A questo punto si voltò e diede un'occhiata a Fonfo, che gli fece
un cenno d'assenso.
Beast
tornò a guardare davanti a sé, strinse forte l'impugnatura della mazza, la
sollevò un po' verso l'alto per darsi lo slancio, le sue braccia si mossero e,
in men che non si dica, quella pesante clava prese a fendere l'aria con una
velocità eccezionale. Nessuno ebbe il tempo di stupirsi vedendola passare ben al
di sopra della testa del giovane uomo in carrozzella, perché Beast le aveva già
fatto compiere i 360 gradi del giro completo, portandola ad impattare
violentemente contro la parte laterale del casco che indossava Fonfo, il quale
non riuscì a evitarla e stramazzò sull'asfalto.
Mnaio, alle spalle della donna che teneva
stretta per le braccia, lasciò lentamente la presa; Dtqquo rimase fermo al suo
posto senza spiccicar parola, osservando Fonfo steso al suolo, esanime, con la
gamba sinistra in preda a un anomalo tremore. Inizialmente incapaci di
comprendere se si fosse trattato di un errore di Beast, che rimaneva
indifferente a fissare i suoi spunterbi, o se ci fosse stata da parte sua
l'intenzionalità di compiere quel gesto, i due si avvicinarono esitanti al loro
amico, lanciando occhiate fugaci agli altri protagonisti della scena; si
accosciarono, gli levarono il casco ammaccato e crepato e osservarono per
qualche istante quel viso terreo e tumefatto; poi cercarono invano di farlo
rinvenire, chiamandolo e dandogli dei buffetti sulle
guance.
"Ma... è grave", balbettò Mnaio, "bisogna
portarlo all'ospedale", soggiunse allarmato.
"Che strano", gli rispose serafico Beast.
"Eppure aveva il casco".
Mnaio e Dtqquo si guardarono reciprocamente,
poi si rivolsero a Beast ed esplosero.
"Sta male!", gli gridò Mnaio. "Ti sembra
questo il momento di scherzare?".
"Potresti averlo ammazzato!", gli urlò a sua
volta Dtqquo.
"Era già morto cerebralmente da parecchio
tempo: come voi, del resto", affermò Beast, con un tono di voce insinuante.
"State tranquilli", proseguì , lentamente, "il mondo non ne sentirà certo la
mancanza. E poi, per fortuna, siamo tutti condannati a
morte".
Al suono di queste parole, Dtqquo, fuori di
sé, raccolse da terra la sua mazza, scattò in piedi e, brandendola, fece per
avventarsi contro Beast; ma, fatto che ebbe un passo, dal buio saltò fuori Barry
che, con ferocia, gli morse il polso della mano che impugnava l'arma, e lo fece
con una violenza e una forza tali da staccargli del tutto la mano, che cadde a
terra in una pozza di sangue, assieme al robusto bastone. Dtqquo osservò
atterrito l'estremità del suo moncherino, da cui zampillavano i primi fiotti di
sangue. Barry, che si era portato al fianco di Beast, ringhiava minaccioso.
A questo punto, vista l'aria che tirava,
Mnaio corse da Dtqquo, che per il gran dolore non riusciva nemmeno a urlare, e
gli fece cenno di salire in macchina; poi, a fatica, sollevò da terra Fonfo, lo
trascinò per qualche metro e lo distese sul sedile posteriore dell'auto. Zitto,
tornò a raccogliere la mano del suo amico, quindi, con movimenti rapidi, senza
guardare Beast, si mise al volante. La ragazza muta corse ad abbracciare il
giovane tetraplegico che accompagnava, guatò per un istante Beast con un
sentimento di gratitudine misto a timore e si allontanò di tutta fretta
spingendo la carrozzella.
Quando
l'auto dei tre amici partì sgommando, Beast la seguì con lo sguardo; poi si
chinò, piegò a terra un ginocchio, tenendo l'altro in avanti; sollevò la
cerniera lampo che partiva dall'orlo dei suoi jeans, fino a scoprire un piccolo
congegno simile a un orologio da polso, allacciato poco sopra la caviglia. Su
questo dispositivo, direttamente collegato all'oggetto che Beast aveva
precedentemente piazzato sotto il sedile dell'auto, vi erano un display e due
pulsanti. Beast ne premette uno, e la Gluteo esplose, divorata dalle
fiamme.
Intanto, in un ufficio della Centrale delle
Forze di Protezione:
"Bene, bene, vediamo un po' di chi sono
questo passaporto e questo salvacondotto... Hm!... Condurango Dos Santos
Olvidados... Quanti cazzi di nomi hai?... Sexo masculino: che sei, ricchione? Come
ti chiami?".
"Victoria".
Il conestabile di primo grado di quel
distaccamento delle FDP sorrise e puntò il faretto in direzione del volto della
vittima di quella notte. Poi lesse a voce alta qualche parola del rapporto che
la riguardava:
"Schiamazzi nella pubblica via, resistenza
agli ufficiali dell'ordine, oltraggio ai medesimi, ginocchio sanguinante,
minacce e insulti a cittadini onesti, oscenità, abiti succinti, offesa alla
morale, deviazione mentale certa, soggetto irrecuperabile e da isolare. Che
cazzo hai combinato, Vittorio?".
"Iu
nienti. Iu stava lì , come tutte sere, e loro hanno sputato in mio bracio e hanno
tirato sasso in mia gamba e loro dire che iu...".
Victoria fu interrotta da un violento
manrovescio al viso che la fece quasi cadere dalla
seggiola.
"Sempre così , voi!", urlò il conestabile
rabbiosamente, riversando su Victoria tutto il suo odio e il suo disprezzo. "Non
avete fatto nulla! La colpa è degli altri!", e, afferrata con violenza la sua
vittima per i capelli, le disse: "Ma io non ci casco! So come stanno le cose, so
che quelli come te sono frutti marci che vivono nel peccato e minacciano i
cittadini perbene!".
Victoria gemeva, supplicando il
grasso conestabile di lasciare la sua presa. Quando questi lo fece, lei cominciò
a singhiozzare.
"Parliamoci chiaro, signorina Dos Santos Olvidados ecc.",
riprese con il suo interrogatorio l'aguzzino, "non raccontarmi balle, o il culo
te lo apro io con i miei metodi raffinati".
In quel momento entrò un altro militare, un
sovrintendente tutto trafelato.
"Capo! Capo!", esclamò. "Una macchina è
saltata in aria: tre morti. Le perizie preliminari dicono che è stato un ordigno
ad alto potenziale collegato a un dispositivo a distanza".
"E chi sono 'sti morti?", domandò il
conestabile, annoiato e infastidito.
"Carbonizzati, capo.
Irriconoscibili".
"C'è qualche pista?".
"Nessuna, capo".
"Va bene. Vattene, Stigazzi, e lasciami
lavorare in pace".
Mancava ormai poco allo spuntare delle prime
luci del giorno. Il conestabile pensava che era giunta l'ora di stringere i
tempi, anche perché il suo turno stava per terminare. Si rivolse a Victoria e le
disse:
"Hai sentito? Qui, nella Merdopoli, in questa
Corte dei Miracoli, ne succedono sempre di tutti i colori. Si dice che quelli di
noi che finiscono qua sono dei coglioni, ma io li vorrei vedere quelli del
Centro o della B al nostro posto, vorrei proprio vedere che riuscirebbero a
combinare in questo inferno. Siamo noi che abbiamo da insegnare a quei
signorini, altro che storie", e interruppe questo blando sfogo per accendersi un
sigaro. Victoria continuava a fissare il pavimento, snervata e spenta. Il suo
persecutore guardò l'orologio: era tardi, doveva
sbrigarsi, farla sentire in colpa e approfittarne. "Torniamo a noi", le disse in
tono vagamente minaccioso. "Lo sai che c'è la galera per quello che hai fatto,
hm?".
Si stava divertendo, seguitava a minacciarla
per porre in risalto la propria superiorità nei confronti di quello che
considerava un sottoprodotto umano, torturandola moralmente e umiliandola,
tirando in ballo la sua condizione. Dal canto suo, Victoria, quando sentì
pronunciare quelle ultime parole in cui si faceva riferimento alla galera, ebbe
come un sobbalzo e tornò a incrociare lo sguardo duro e perfido del
conestabile.
"Ti
pregu, capitano", lo supplicò disperata, "no mi rovinarmi. Iu tengo già tanti problemi...".
Quello che lei chiamava capitano, si abbassò
i calzoni e glielo mise davanti alla sua bella bocca. Victoria si inginocchiò,
ancora con le lacrime agli occhi, lo sfiorò con le sue mani tremanti, poi le sue
labbra e la sua lingua fecero il resto.
"E ora sparisci", bofonchiò appagato il
conestabile, mezzo spaparacchiato sulla scrivania.
Victoria, incredula, raccolse da terra la sua
borsetta, vi infilò dentro sandali e passaporto, poi, voltandosi di continuo,
sgattaiolò da quella stanza e cominciò a percorrere scalza e a capo chino un
lungo corridoio grigio. Uscita all'aria aperta, notò che il colore del cielo non
era più nero, come di notte, ma blu, di quel blu tipico dell'alba che sta per
cedere il passo all'aurora: il giorno era ormai alle porte. Victoria sentì un
brivido di freddo, poi, rapida, prese a discendere la scalinata dell'edificio in
cui aveva passato quasi tutta la nottata. Non c'era nessuno per le strade;
camminò ancora per un po', senza riuscire ad orientarsi, senza sapere da che
parte si trovasse la sua piccola casa, poi svoltò in una strada laterale, vi
fece qualche passo e, sfinita, confusa, per non crollare a terra, appoggiò le
spalle nude a un muro. Levati gli occhi al cielo, cominciò ad ansimare e disse
sottovoce:
"Mio
Dio: dove sei, tu?".
A questo punto, per tutto il viso le corse un
tremito, e proruppe in un pianto dirotto.
Le
lacrime le offuscavano la vista e le impedivano di distinguere le forme e i
colori davanti a sé.
Così , quando notò la sagoma scura di una persona che sembrava osservarla da
vicino, non capì chi fosse né cosa stesse facendo, lì , ferma accanto a lei. Del
resto, in quei momenti non poteva importargliene nulla di saperlo; facendo perno
su una spalla, voltò la schiena a quella persona, dandole a intendere che voleva
essere lasciata in pace. Adesso poggiava al muro il fianco e la
tempia.
"Qua vicino, qualcuno deve avere appena
sfornato il pane", le disse con estrema dolcezza una voce maschile. "Senti
questa fragranza? Seguiamola e andiamo a fare colazione".
Victoria si voltò lentamente verso quella
persona e fece per asciugarsi gli occhi col dorso della mano, ma chi le aveva
parlato la anticipò e, delicatamente, prese a detergerle con un fazzoletto le
lacrime dagli angoli degli occhi e dalle guance. La nostra amica si trovò di
fronte a un bel ragazzo dai capelli neri e dal sorriso che ispirava fiducia; il
suo sguardo, anche nei momenti di relativa rilassatezza come quello, aveva
sempre un che di profondo, di magnetico, e gli conferiva un'espressione sempre
viva e penetrante, indizio, questo, di una sagacia e di una saggezza quasi
animalesche. Insomma, per farla breve, era Beast.
"Chi
sei?", gli domandò Victoria. "Iu no
ti conoscere. Cosa volere tu da me?".
"Tenerti compagnia per un po', se ti
va".
"Una
ora, quarenta neuro".
Beast si mise a ridere. Victoria lo guardò
cercando di decifrare quel riso, che le causò una certa inquietudine, abituata
com'era a vedere negli affari solo bianco o nero, ma anche ad aspettarsi tutte
le notti l'immancabile balordo sempre pronto a farle del male. Le istintive
congetture di Victoria ebbero termine quando l'attraente viso di Beast ritornò a
farsi serio, pur mantenendo quell'amabile e serena espressione con la quale
intendeva infonderle coraggio
e comunicarle lealtà.
"Fai bene a non fidarti degli esseri umani",
le disse, "ma non perdere mai la speranza di incontrarne qualcuno che sappia
esserti vicino disinteressatamente, anche solo per una ora. Non favorire l'opera di
ghettizzazione nei tuoi confronti da parte del sistema".
"Tu no
sai mia situasione", gli rispose Victoria a mezza voce. "Quandu iu uscire dalla casa mia, iu vedere
tutta gente che mi guarda con odio e dispresso. Tu no sai quantu brutto è vedere
la gente che gli facio eschifo: la gente di giorno tratta me come una malattia,
di notte come una cosa".
"Lo so. Ma per me sei una persona che vale
moltissimo: la tua resistenza ha un che di sacro, di monumentale. Ora, però,
basta chiacchiere: quel pane caldo ci sta aspettando".
Un piccolo panino croccante e una brioche
alla confettura di albicocca furono sufficienti per far riaffiorare un timido
sorriso sulle turgide labbra di Victoria; sul suo dolce volto, tuttavia, erano
ben visibili i segni di una stanchezza non solo fisica.
"Come ti senti, ora che ti sei rifocillata,
hm?", le sorrise Beast.
"Meglio. Grazie di mi chiedermi questa cosa
-come sto- che nessuno mai chiede a me".
"Che coglioni con 'sto
vittimismo!".
Victoria abbassò lo sguardo e rise
fiaccamente. Poi tornò ad incrociare il volto di Beast con i suoi splendidi
occhi e, dopo avergli fatto presente che aveva un estremo bisogno di dormire,
gli chiese con una punta d'imbarazzo se fosse stato disponibile ad accompagnarla
fino a casa. Beast accettò volentieri di farle questo favore, e così i due si
incamminarono per quelle strade ancora deserte. Dopo pochi passi, Victoria volle
tenere sottobraccio quel ragazzo gentile, il quale naturalmente acconsentì ;
quindi, forse per la stanchezza o xe2x80x93più probabilmente- per il desiderio di
stabilire un altro contatto, Victoria appoggiò la guancia al suo poderoso
bicipite. Beast sapeva che Victoria in quei momenti si sentiva bene e ciò lo
allietava; sapeva che lei, prima di addormentarsi, avrebbe potuto fare
affidamento sulla dolcezza di quei minuti, in grado forse di attenuare il penoso
ricordo delle sevizie subite quella notte, di farlo passare in secondo piano.
Sia lui che lei rimasero in silenzio durante tutto il tragitto. D'un tratto,
rischiando quasi di fargli uno sgambetto, Victoria si piazzò davanti a Beast, ne
arrestò i passi e gli indicò il casamento poco distante nel quale si trovava la
sua abitazione. Si trattava di un edificio che aveva un assai poco rassicurante
aspetto di abbandono, un po' come tutti quelli della Merdopoli; l'intonaco della
muratura esterna, evidentemente mai rinnovato, era stato scrostato qua e là
dalle intemperie e dagli insulti del tempo, tantoché erano ben visibili su
quelle decrepite superfici ampie macchie grigie, entro le quali s'intravvedevano
la disposizione dei mattoni, nonché profonde crepe.
I due
entrarono nell'androne di quel condominio, poi salirono una rampa di scale e si
trovarono sul pianerottolo del primo piano; lì Victoria indicò a Beast la porta
di casa sua. Era un piccolo monolocale dai muri ingialliti, un vero e proprio
tugurio in cui tutto sapeva di mucido, nonostante Victoria avesse collocato
sopra una mensola una boccettina aperta contenente essenze aromatiche. Il letto
occupava una buona parte di quella stanza, tenuta comunque in buon ordine. In un
angolo, un tramezzo di metallo isolava i servizi igienici dal resto
dell'ambiente. Vicino all'unica finestra, v'era una rientranza nella parete, con
un paio di ripiani dov'erano sistemati una pentola, due piatti, una tazzina da
caffè e qualche posata; sotto di essi, poco più in basso, un lavello. Come in
tutti gli appartamenti della Merdopoli, non c'era alcuna telecamera fissa: la
telecamera era una prerogativa delle case della zona B, dove vivevano quei
cittadini che avevano ancora qualcosa da perdere.
Beast sedette sulla sedia accanto al piccolo
mobile che faceva da toletta, mentre Victoria iniziò lentamente a spogliarsi,
per poi andare sotto la doccia. Uscitane gocciolante, indossò un accappatoio e,
infreddolita, rimase a guardare il suo amico, tenendo le braccia
conserte.
Asciugatasi
anche i capelli, entrò in un largo e soffice maglione che le arrivava fino alle
ginocchia, poi si infilò sotto le coltri del suo letto e, con il gomito
appoggiato sul cuscino, seguitò a osservare Beast in silenzio. Dopo qualche
attimo, disse:
"Tu no
vuole restare no a fare me compagnia?".
"Non posso, Victoria".
"E
alora tu torna altra volta e iu ti preparare piatto di mio
paese".
Beast sorrise, annuì e andò a sedersi sul
letto. Victoria si fece da parte, appoggiò la testa sul cuscino e,
istintivamente, fece come per offrirsi. Languida, protese le braccia verso il
volto di Beast, il quale, a sua volta, dolcemente, le afferrò i polsi, facendole
appoggiare gli avambracci sul cuscino, ai lati del capo, mentre col torace
avvertiva le morbide rotondità del seno di lei, di lei che lo guardava fisso
negli occhi, con bramosia, sì , ma anche con un certo stupore. Allora lui le
diede un bacio meraviglioso, prolungato, tenero ed impetuoso al tempo stesso, un
bacio vero, che nessuno mai le aveva dato...
Quando si rimise all'impiedi, la guardò
ancora una volta; si era rannicchiata sul fianco, e gli occhi le si erano
arrossati; quasi in silenzio, iniziò a piangere per la
felicità.
"Riposati, adesso".
"Sì ", gli rispose Victoria, con la voce
rotta da impercettibili singulti, "sì , iu
adessou dormire per dimenticare tuti miei problemi. Iu sogno
te".
Beast la guardò ancora, poi uscì . Victoria si
addormentò serenamente.
Barbara Shase
pubblicato il 12.02.2007 [Testo]