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Uno scritto a caso

Pensiero di una sera di novembre
[scritto] Tristezza e speranza
gianna
01.12.2012

"UNA NOTTE NERA, POI L'ALBA"

Più che un riassunto, desidero scrivere qualche riga come presentazione e avvertenza. Teatro di questo mio racconto è una megalopoli infernale, l'azione si svolge verso la fine del ventiduesimo secolo, tra duecento anni circa. Molochia, la megalopoli infernale, è costituita da un Centro (dove vive la gente perbene), da una fascia intermedia (dove abita chi lavora e produce) e dalla Merdopoli (dove vengono relegati e ghettizzati i cosiddetti soggetti devianti); quest'ultimo disgraziato anello di Molochia è ben separato dai primi due da una robusta e altissima recinzione, presidiata dalle Forze di Protezione. Ogni riferimento a fatti e personaggi della nostra epoca sarà puramente casuale?...)

UNA NOTTE NERA, POI L'ALBA

Un sabato sera come tanti altri per la ricca e gaudente gioventù del centro di Molochia. A cena in qualche lussuoso ristorante, un bicchierino nel locale preferito e poi la discoteca, oppure una corsa in auto fino ai check-point che davano accesso alla Merdopoli, per l'allegro giro nelle vie della prostituzione, logicamente bandita dal centro e dalla zona B.
"Siamo a posto, capo?".
"Sì , tutti registrati. Ecco il vostro talloncino per il rientro: non perdetelo".
"Tranquillo, capo, siamo ragazzi con la testa sulle spalle".
La barra d'acciaio si sollevò, e una Gluteo nera di grossa cilindrata fece ingresso nella Merdopoli. Fu il ragazzo che ne era alla guida a tranquillizzare l'ufficiale di confine delle Forze di Protezione; con lui, in quell'auto che procedeva lentamente, altri due amici. Tutti e tre sembravano molto eccitati per il fatto di trovarsi nella Merdopoli, e con sguardi avidi ne osservavano le strade buie e gli edifici, sperando di scorgervi il più presto possibile i primi segni di ciò che stavano febbrilmente cercando: una persona da umiliare, magari pure pagandola affinché soggiacesse a qualche gioco erotico proibito.
I tre amici conoscevano bene quelle zone, quei quartieri; ora, infatti, la Gluteo percorreva i viali dove si prostituivano le trans, - allegre, chiassose, in perizoma, bellezze statuarie su vertiginosi tacchi a spillo. I tre non stavano più nella pelle; gomiti poggiati sui finestrini abbassati, ridevano di quel variopinto dolore da marciapiede. E, oltre alle battute volgari e agli insulti rivolti a quelle persone di categoria inferiore, urlavano ferocemente verso di esse, forse per esorcizzare una recondita frustrazione, per sfidare e sbeffeggiare una lontana paura, per dare sfogo a un desiderio ignoto e inconfessato. Eppure, non si trattava di bambini; stiamo parlando di gente intorno ai trent'anni che, nei momenti di pausa tra un insulto e l'altro, all'interno dell'abitacolo conversava più o meno così :
"Ve l'avevo detto che mio padre è tornato dall'Africa due giorni fa? Voleva come posacenere la mano aperta di un gorilla e, grazie alla sua passione per il bracconaggio, se l'è procurata e ce l'ha portata a casa!".
"Cazzo! Fico!".
"Sì , ma poi ha dovuto anche ammazzare un tale che faceva la guardia nella riserva e che si lamentava perché gli erano rimasti solo due scimmioni in quel territorio, e balle varie".
"Fatto bene. Il mio vecchio, invece, se l'è spassata con una undicenne in Thailandia, una vacanza da sogno. Ha promesso che ci porterà anche me, la prossima volta!".
Con lo stereo a tutto volume, l'auto sbucò in un rondò, al centro del quale sorgeva una contorta riproduzione in cemento di quattro alberi, che, soprattutto da lontano, ricordava le corna di un cervo. In questo parchetto di cemento vi erano anche due panchine di ferro; su una di esse, con le braccia conserte e le gambe allungate, immobile, sedeva un ragazzo apparentemente intento ad osservare i ferrei spunterbi dei propri anfibi in grezza tela cerata. Nessuno poteva notarlo, si trovava nel punto più buio dello spartitraffico che abbiamo or ora descritto. A poca distanza da lui, sul margine della strada, sotto la luce dei lampioni, Victoria. Lunghi capelli neri e mossi, seni generosi bene in vista, minigonna in jeans, tacchi alti, carnagione scura e un minuscolo difetto nel tanga. I tre amici la notarono subito e puntarono in sua direzione. Lei lo capì e, mani sui fianchi, assunse una posa accattivante. Ma l'auto, di colpo, accelerò e passò a gran velocità su una pozzanghera a poca distanza dai piedi di Victoria, che si ritrovò inzaccherata fin sopra alle ginocchia. I tre della Gluteo risero fragorosamente e, sgommando, fecero il giro del rondò, per poi frenare bruscamente al cospetto di colei che avevano preso di mira.
"Scusaci, non l'abbiamo fatto apposta. Di dove sei?".
"Vengu di paese lontano", rispose imbronciata Victoria.
"E quanto vuoi per farci un pompino a tutti e tre?".
Stava per illustrare il suo tariffario, quando dal finestrino posteriore partì un grosso sputo che terminò la sua traiettoria finendole sull'avambraccio. La Gluteo ripartì a razzo, nel suo abitacolo si poteva assistere ancora a scene di grande ilarità, tutti si spanciavano dalle risate! Victoria estrasse dalla propria borsetta un fazzolettino di carta e si pulì , con un'espressione che definire triste sarebbe assai poco.
Per qualche secondo sembrò che le acque si fossero calmate; i tre abbandonarono la piazza e presero una stradina laterale. Poi la Gluteo ricomparve, percorse a tutta velocità mezzo rondò e, quando transitò nuovamente davanti a Victoria, da uno dei suoi finestrini venne scagliato con violenza un sasso che la colpì appena sotto il ginocchio.
"Frocio di merdaaa!", si sentì gridare dall'abitacolo di quell'auto, che stavolta sparì dal rondò definitivamente.
Victoria, quasi d'istinto, zoppicando, mosse qualche passo dietro l'auto dei tre amici, imprecando coi pugni levati verso il cielo. Ma dopo pochi metri si fermò e incominciò a piangere sommessamente, osservando la linea rossa che le rigava lo stinco fino al dorso del piede.
Ma, si sa, le disgrazie non arrivano mai da sole, soprattutto per le creature più deboli e sfortunate. Così accadde che la reazione scomposta di Victoria (solo quella, naturalmente) non sfuggì all'occhio attento della legge, cioè a una squadra delle Forze di Protezione in un mezzo blindato di pattuglia nella Merdopoli. In men che non si dica, quella povera persona venne circondata, e vide puntate attorno a sé le canne traforate delle armi a lunga gittata di quel drappello di protettori dell'ordine. Non tentò alcuna difesa o spiegazione, la colpevole era sempre e comunque lei; del resto, era pure consapevole di avere a che fare con esseri umani che di umano non avevano proprio nulla. Quindi, rassegnata, salì sul retro del mezzo blindato e si fece condurre negli Uffici della Legge e dell'Ordine, dove peraltro sapeva ciò che l'attendeva: si trattava di una pratica già sbrigata da lei in passato, doveva semplicemente attendere lunghe ore in una gabbia di un metro quadrato, per poi espletare un'umiliante formalità e tornare libera.
Quando il mezzo blindato si allontanò dalla piazza, il ragazzo che sedeva su una delle panchine sotto gli alberi di cemento, si alzò all'impiedi, sbadigliò, si stiracchiò, si sgranchì le gambe saltellando e fece un po' di stretching. Nel corso degli ultimi episodi che avevano visto Victoria in balia dei tre simpatici amici in vena di scorribande notturne, egli non si era mai mosso dalla posizione in cui lo abbiamo descritto poco fa. Nonostante le urla, il trambusto e le sgommate, aveva continuato a fissare gli spunterbi dei suoi anfibi, senza mai nemmeno girare il capo per un solo istante. Ma ora xe2x80x93come detto- s'era alzato e, furtivo come un gatto, si allontanò dalle ombre dello spartitraffico e si incamminò lungo una via.
Pensando a Victoria.
Ma chi era costei? Quali erano il suo presente e il suo vissuto? A dispetto della volontà di molta gente cosiddetta perbene, a noi fa piacere parlarne, almeno per poche righe, dato che è proprio il silenzio che cala su certe creature a decretarne l'emarginazione, unito al disprezzo e ai pregiudizi che hanno origine dall'ignoranza e dal turbamento, se non addirittura da un'ancestrale paura nei confronti di chi esce dagli schemi e viene per tale motivo qualificato come soggetto deviante.
Quando, nel ventesimo secolo, si cominciò a parlare di transessualismo, si cercò pure di aiutare le donne come Victoria, tentando xe2x80x93spesso invano- di favorirne l'inserimento nella società. Poi, trascorsi circa cent'anni, le cose iniziarono a precipitare, fino ad arrivare al tramonto del ventiduesimo secolo, cioè l'epoca in cui si svolgono le vicende che stiamo narrando, epoca in cui le persone come Victoria (ma non solo) venivano ghettizzate e considerate esseri inferiori. Non potevano avere accesso alla zona B di Molochia e men che meno al centro; vivevano dunque nella Merdopoli, assieme a tanti altri esclusi. Victoria, come la sua cara amica Samueda, era nata (ma, forse, per essere proprio precisi precisi, bisognerebbe dire "nato") in un punto del pianeta agli antipodi di Molochia, in un povero villaggio nel nord di un paese tropicale. In quella terra lontana, un tempo meravigliosa, ma ora desertificata dalla miseria prodotta dallo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali - fino alla loro completa distruzione, sembrava che certe cose fossero connaturate sin dalla prepubertà nei bambini come Victoria, la quale incominciò ad assumere ormoni femminili a partire dall'età di dodici anni, cioè non appena iniziarono timidamente a manifestarsi in lei quegli atteggiamenti e quelle pulsioni tipiche del genere cui ella sentiva profondamente di appartenere. E così lo sviluppo del suo corpo procedette quasi di pari passo con quello di una qualunque altra femmina genetica, accompagnato dai medesimi interessi: le gonne, i trucchi, la bigiotteria, lo specchio. Trascorsi che furono altri due o tre anni, la giovane cominciò quasi per caso il mestiere, credendo peraltro che il primo cliente fosse un innamorato; quando questi la scaricò senza tanti complimenti, Victoria aveva qualche moneta nel palmo della mano e niente nel cuore. Fu in questo periodo che conobbe Samueda, in una cittadina nei pressi del suo villaggio, dove entrambe decisero di farsi abbordare da uomini d'affari provenienti da un continente in cui nessuno pativa la fame e tutti erano ricchi, almeno così si diceva. Stabilito il prezzo, ci si appartava con essi, allegramente, senza vederne la volgarità, ma solo considerandone i bei vestiti, i modi garbati e, soprattutto, il denaro. Alcuni di questi clienti le dissero che, dall'altra parte del pianeta, molte creature come lei avevano fatto fortuna: "Dalle mie parti, una come te guadagnerebbe in una sola sera quello che qui racimola in un mese". E fu in quel periodo che Victoria sentì pronunciare per la prima volta il nome di Molochia. Decise di parlarne a Samueda, poi, stabilito con lei il da farsi, un giorno si presentò a sua madre, l'unica persona di famiglia rimastale, e le comunicò la sua intenzione di trasferirsi in quel ricco continente, dove avrebbe potuto guadagnare i soldi per comprarle una casa da sogno. La madre, ormai abituata alla baracca in cui aveva sempre vissuto, guardò Victoria con amore e le disse con un'ineffabile saggezza che il continente ricco era il luogo dove il bambino piangeva e la mamma non vedeva. Queste parole commoventi e, per certi versi, sibilline colpirono nel profondo dell'anima la giovane Victoria, la quale continuò a pensarci anche nei giorni successivi, durante il lungo viaggio verso Molochia in compagnia di Samueda. Tutt'e due volgevano già il pensiero alla loro terra, a ciò che era ormai alle loro spalle, e tutt'e due piangevano. All'arrivo a Molochia, vennero prelevate dagli ufficiali sanitari delle Forze di Protezione e sottoposte a una brusca visita medica, al termine della quale venne loro tatuato un numero all'altezza della scapola. In seguito, furono condotte nella Merdopoli e qui scaricate in mezzo a una strada con le loro borse. Il loro aspetto esteriore non lasciava spazio a dubbi di sorta riguardo la loro destinazione.
Fu proprio in quel momento che per Victoria iniziò una nuova vita, un'altra vita, con un futuro incertissimo e un orizzonte pieno zeppo di punti di domanda. Ma quando si è giovani, vuoi per incoscienza o per un'inguaribile spensieratezza, si tende sempre a dare poca importanza all'ignoto, votandosi all'ottimismo. Ottimismo che non vacillò nella nostra amica nemmeno quando il gestore di un alberghetto malfamato, cui si era rivolta per avere un tetto, le fece pagare una stanza lurida senza servizi più di una suite di un hotel di lusso in pieno centro. La medesima storia ebbe a ripetersi quando, dopo una manciata di giorni, volle sistemarsi in un piccolo e vecchio appartamento non arredato dalle pareti scrostate, il cui proprietario, approfittando della condizione dell'inquilina, stabilì per lei un esorbitante prezzo d'affitto. E Victoria, in silenzio e senza nemmeno accennare ad alcuna timida rimostranza, lo pagò puntualmente tutti i mesi. Non poteva parlare; le avevano fatto il favore di accoglierla in un paese straniero, lei, trans, che si prostituiva per il piacere di coloro che, provenienti dai quartieri ricchi di Molochia, la usavano come un oggetto. Senza subire particolari molestie da parte delle colleghe presenti nella zona da più tempo, riuscì a trovare in una strada della Merdopoli il posto per far mercimonio di se stessa, per esercitare quello che in molti, superficialmente, definivano il mestiere più vecchio del mondo, senza mai menzionarne almeno alcune fra le più tragiche connotazioni.
La giornata di Victoria iniziava solitamente nelle prime ore del pomeriggio, quando si svegliava e si alzava dal suo letto, che rimaneva costantemente disfatto. Poi, dopo aver indossato qualche capo casual ed essersi raccolta i capelli, inforcava gli occhiali scuri e usciva per fare delle lunghe passeggiate a piedi, cercando di interpretare alla meglio il colore locale di quella parte della grande metropoli che la ospitava. Ma la Merdopoli non possedeva un'identità, un'anima; era piuttosto un babelico insieme di suoni, voci, culture e abitudini che viveva nell'ombra rispetto al centro e alla zona B di Molochia. Spesso era capitato a Victoria di spingersi fin quasi alla striscia d'asfalto militarizzata, che precedeva la recinzione oltre la quale si potevano scorgere i palazzi della zona B. Quell'intreccio di aste d'acciaio, quell'altissima barriera lontana, quel limite invalicabile, era per lei come un monumento al quale tuttavia non riusciva a dare un'interpretazione compiuta. Di solito, contemplava ammirata la grandiosità di quella recinzione, di quell'opera umana capace di dividere e di incutere soggezione, sia che la si scrutasse dalla zona B o dalla Merdopoli.
Ma poi finiva sempre per spingere oltre il proprio sguardo, fra i palazzi della zona B, - che non erano verdi, gialli, rosa, celesti o arancioni come nelle città del suo paese. Qui il colore dominante era il grigio, e tutto sembrava molto più serio rispetto ai luoghi in cui era nata e cresciuta; la disposizione dei palazzi della zona B, la loro forma, la loro tetraggine: tutto era come finalizzato a un unico scopo: quello di produrre, di lavorare, di contribuire alla prosperità della parte sana di Molochia. A Molochia quasi tutti avrebbero venduto la propria madre pur di accumulare denaro: Victoria veniva da un paese in cui questo era solo un modo di dire, non certo la realtà quotidiana. E non poteva sapere che, al di là del monumento all'indifferenza costituito dalla recinzione, gli abitanti di Molochia, per far fronte alla diperazione e allo squallore di tutti i giorni, avevano da molto tempo fatto scempio di se stessi, annullando le proprie coscienze. Ben presto capì che qui, nella sua nuova città, non si scherzava. Era per tale ragione che, quando tornava dalle sue passeggiate pomeridiane, cenava alla svelta, scura in volto, e poi si piazzava davanti allo specchio, dove si truccava mandando di tanto in tanto dei prolungati sospiri e fissando i propri stupendi occhi da cerbiatta con perplessità, in attesa di una risposta a una domanda che forse non esisteva, che lei stessa non sapeva porsi.
D'abitudine, raggiungeva il suo posto di lavoro poco dopo la mezzanotte e lì attendeva il primo cliente. I clienti xe2x80x93si sa- sono sempre stati capricciosi e, nella loro superficialità, non si rendevano conto che le figure che vedevano dall'auto sul ciglio della strada erano degli esseri umani. Essi consideravano queste persone come delle cose, degli oggetti coi quali dar libero sfogo alle proprie perversioni, in angoli bui e nascosti. Si trattava il più delle volte di uomini cosiddetti perbene, di frequente molto ricchi, con moglie e figli, uomini irreprensibili per i loro collaboratori e dipendenti, ma bisognosi di liberare le proprie inquietudini, di saziare le proprie voglie inespresse, di soddisfare certe fantasie morbose facendole diventare realtà. Tutto ciò naturalmente aveva un prezzo (non necessariamente astronomico, anzi) e richiedeva la presenza di una persona-oggetto, cioè di una persona come Victoria. Tanto per fare un esempio, una notte sì e una no, capitava sempre qualcuno che le chiedeva di essere penetrato da lei; a questa richiesta, a differenza di molte colleghe, Victoria rispondeva sempre di no con aria sdegnata e si girava corrucciata dall'altra parte: era una vera donna, lei, come tale si sentiva, e xe2x80x93ammesso che le fosse stato possibile- non le andava di recitare ruoli che non le appartenevano, nemmeno se l'avessero ricoperta d'oro.
Insomma, Victoria imparò presto che lei era uno dei pochi mezzi atti a svelare le parti più recondite e sopite dell'uomo comune, o normale che dir si voglia; il fatto che, per carattere, non avesse alcun interesse a giovarsene in qualche maniera e, in aggiunta (elemento tutt'altro che trascurabile), fosse pure impossibilitata a farlo per via dell'isolamento nel ghetto della Merdopoli, rendeva lei, come del resto le sue amiche, sempre desiderabili, - in quanto oggetti in presenza dei quali era possibile mostrare tutta la propria vigliaccheria, senza subirne alcuna conseguenza in termini di reputazione.
Debolezze e miserie ne aveva viste talmente tante da poterci scrivere un libro; eppure, ciò che l'avrebbe sempre fatta rabbrividire, sarebbe stato il ricordo del tremendo impatto con il suo primo inverno a Molochia: di solito, ci pensava all'alba, quando andava a dormire. Il gelo che scudisciò la sua pelle scura quella prima volta, la colse del tutto impreparata e la fece addirittura piangere disperatamente; non avrebbe mai potuto immaginare un freddo simile, lei, abituata a danzare sulla sabbia ogni giorno dell'anno, nel suo paese lontano...
Intanto, con passi felpati e decisi, il ragazzo che stava seduto nell'oscurità del parchetto di cemento era giunto al termine di una strada che sbucava in un vasto spiazzo, in quello che sembrava essere una specie di enorme parcheggio. Diede un'occhiata davanti a sé e, al centro dello spiazzo, notò le luci di un chiosco, di un punto di ristoro ambulante. Alcuni avventori occasionali stavano consumando uno spuntino fra gli schiamazzi, altri, forse ubriachi, sembravano sorreggersi ai tiranti della saracinesca basculante, che ora fungeva da tettoia. Una donna grassa, dietro alla vetrina del banco, li osservava fumando. A un certo punto, provenendo dalla parte opposta rispetto a quella in cui si trovava il ragazzo, un grosso lupo si avvicinò al baracchino, forse spinto dalla fame, e si fermò alle spalle di quelli che stavano allegramente mangiando. Uno di essi si avvide della sua presenza con la coda dell'occhio, interruppe momentaneamente la conversazione con gli altri, si girò del tutto verso il lupo e gli tirò un calcio violento al fianco. L'animale si scostò, emettendo un sommesso guaito, poi osservò l'umano che l'aveva scalciato con uno sguardo ineffabile e si allontanò lentamente dal chiosco, mentre tutti presero a ridere.
"Barry...", mormorò tra sé il ragazzo, guardando attentamente quelle scene di lontano.
Aveva riconosciuto la sagoma inconfondibile del suo amico a quattro zampe, il quale, ora, sembrava stesse dirigendosi proprio verso di lui. Ma a un certo punto Barry si fermò, si fermò e sorrise, sorrise come sorridono tutti i cani, con la bocca semiaperta e la lingua sporgente di lato, dimenando la folta coda. Anche lui aveva riconosciuto il suo amico.
"Beast...", gli disse con gli occhi ridenti, dopo aver drizzate le orecchie per un attimo.
Beast, dal suo punto di osservazione fra le ombre della notte, vide Barry rimettersi in movimento e dirigersi verso alcune automobili parcheggiate poco distante, sulla sinistra. Fra queste vi era una Gluteo nera. Barry ne annusò i fari posteriori, poi guardò Beast, che annuì . Dal chiosco, sempre continuando a ridere e a schiamazzare, tre amici iniziarono a camminare verso quelle auto in sosta: erano proprio i tre della Gluteo, quei tre ragazzotti della Molochia bene che umiliarono per divertimento Victoria, e che anche Barry aveva già avuto il piacere di conoscere, dato che fu uno di loro a tirargli quel calcio.
Beast fece un lieve cenno col capo all'amico lupo, il quale, subito, si dileguò in silenzio. Poi, come un attore che stia per entrare in scena, si concentrò per calarsi nel personaggio che di lì a pochi istanti avrebbe interpretato. I tre amici erano ormai alla macchina e:
"Salve, ragazzi!", fece lui, gioviale, facendoli voltare con aria interrogativa verso di sé.
"Ciao", borbottarono i tre.
"Be', ecco", proseguì Beast, fingendosi imbarazzato e impappinandosi, "io... io vengo dal centro... come voi, suppongo... e... ehm... m'è capitato un inconveniente... ho perso ogni contatto con la mia compagnia... forse mi hanno fatto uno scherzo... di pessimo gusto... s'intende... e, insomma... sono in cerca di un passaggio serio per tornare a casa".
"Noi non torniamo adesso", rispose brusco uno dei tre. "E' ancora presto".
"Oh, io non ho problemi di orario. Figuriamoci! Ero uscito per divertirmi e... Non potrei unirmi a voi?... E' molto pericoloso girare per questi quartieri da soli. E poi, diciamocela tutta, mi avete fatto ridere un sacco con quel frocio... Ah, ah, ah, ah! Se ci ripenso!".
A queste parole i tre mostrarono un'aria compiaciuta e si convinsero di avere realmente a che fare con uno come loro, vale a dire un bravo ragazzo del centro di Molochia. Come tale, non poteva che aver parlato in buonafede; e allora i tre mostrarono verso di lui quella solidale affabilità che in genere si esprime nei confronti di un concittadino che, per puro caso, si incontri in un territorio straniero; risolsero dunque di venirgli in aiuto, offrendogli la loro compagnia e un posto in auto; dopodiché, a turno, si presentarono:
"Fonfo Svotacessi".
"Dtqquo Raccattammerda".
"Mnaio Tirascuregge".
Subito dopo, con voce ferma, toccò a Beast presentarsi, e disse:
"Eschilo Destinofatale".
"Ah, ah, ah!", risero i tre. "Che nome del cazzo! Non è di Molochia! Di dove sono i tuoi?".
"Siamo originari della Spirfucancia".
"Ah!", saltò fuori Dtqquo. "La Spirfucancia! Conosco, conosco".
"Ci sei stato?".
"Sì , però tanto tempo fa, e ora non è che mi ricordi un granché...".
"Be', avrai certamente visitato Sgassada, la capitale, con il suo celebre monumento alla tastiera, la caratteristica torre con l'orologio senza lancette e la pittoresca piazza Minata".
"E' vero, è vero! Sì , ora ricordo!", esclamò entusiasta Dtqquo, mentre gli altri due, per qualche istante, lo guardarono come per dirgli: "Ma come fai a dimenticare certi luoghi?".
Peccato per loro che la Spirfucancia non fosse mai esistita. Dtqquo aveva detto di esserci stato e di conoscerla bene, ma solo per non fare la figura dell'ignorante, non immaginando neanche lontanamente che non ve ne fosse traccia in nessuna cartina geografica, e che si trattasse solo di un'impietosa burla da parte di Beast; avendo aperto bocca, oltre che un ignorante, dimostrò ancora una volta di essere xe2x80x93al pari dei suoi amici- un povero stolto.
Mnaio si mise al volante della Gluteo, Dtqquo e Fonfo, aprendone le portiere, fecero cenno al loro nuovo amico di salirvi a bordo. Beast raccolse quell'invito facendo mostra di esserne entusiasta, e sedette dietro il guidatore. Non appena l'auto si mise in movimento, ne approfittò per domandare ai tre cosa prevedesse a quel punto il programma della nottata; Mnaio, osservandolo allo specchietto retrovisore, gli rispose che avevano due opzioni; si sarebbe potuti andare al quartiere Africa e divertirsi con qualche negro, oppure nella zona dove sorgeva il Freak, la struttura in cui venivano trattenuti i disabili più gravi; tutt'intorno a questa struttura, v'era un intero quartiere popolato da down e da altre persone con handicap fisici e mentali; esclusi dalla zona B e dal centro di Molochia perché scomodi e inutili, questi umani coraggiosi riuscivano malgrado tutto a tirare avanti, senza l'aiuto di nessuno, riunendosi in gruppi e consorzi autogestiti.
Naturalmente, i tre decisero per la seconda opzione. Troppo pericoloso andare all'Africa, si sarebbe corso il rischio di imbattersi in un negro di due metri, tutto muscoli, che magari avrebbe potuto chiamare altri suoi amici. No, meglio dirigersi verso il Freak e prendersela con qualcuno che si fosse attardato per strada, a patto che fosse solo, che zoppicasse o che presentasse una qualche altra menomazione: per certuni è molto più gratificante mostrare il proprio coraggio infierendo contro gli inermi.
Ormai i quattro erano in vista degli edifici che costituivano il quartiere del Freak. Mnaio arrestò l'auto al termine di una via e fece cenno a tutti quanti di scendere; in seguito aprì il vano portabagagli e ne estrasse quattro grossi caschi integrali multicolori, con le visiere a specchio; quando ognuno, compreso ovviamente Beast, ebbe indossato il proprio casco, Dtqquo tirò fuori dal bagagliaio due mazze da baseball, e ne consegnò una a Beast e una a Fonfo. Poi, richiuso il baule, tutti e quattro ripresero i loro posti a bordo dell'auto e ripartirono. Fu proprio in quei momenti, quando i tre ruppero il silenzio e presero a schiamazzare eccitati, che Beast, senza dare nell'occhio, lasciò scivolare sotto il sedile del guidatore un oggetto di forma cubica, nero, poco più grande di un dado da gioco...
Un suono orribile a tutto volume scaturiva dalle enormi casse dell'impianto stereo e si diffondeva all'interno dell'abitacolo; per Beast era una vera e propria tortura; ma, grazie al casco che ne celava completamente il volto, gli fu possibile dar sfogo a tutto il disgusto che provava tramite una serie di smorfie in piena libertà.
La Gluteo, ora, iniziò a percorrere una strada deserta, tutte le finestre degli edifici che vi si affacciavano erano serrate, non una luce, non il minimo segno di vita. D'un tratto, i due che stavano davanti, cioè Mnaio e Dtqquo, si accorsero che, poco prima del termine della via, c'era del movimento, qualcuno stava camminando sul marciapiede, quasi rasente ai muri. Dtqquo spense lo stereo, poi, come gli altri, affissò lo sguardo in quella figura ancora troppo lontana per essere identificata. Mnaio rallentò; Dtqquo e Fonfo, simultaneamente, dissero:
"E' una donna".
Beast protese il busto, e la visiera del suo casco spuntò fra i due sedili anteriori. Si trattava effettivamente di una donna, una donna che, a giudicare dal passo e dalla postura di spalle e braccia, sembrava stesse spingendo qualcosa.
L'auto si avvicinò ancora, fino ad affiancare quella donna, e i quattro videro che stava spingendo una carrozzella, sulla quale sedeva immobile un giovane uomo. La donna, tutta vestita di bianco, guardò impaurita per un attimo verso la strada con la coda dell'occhio. Mnaio, di colpo, accelerò, per poi sterzare bruscamente, fino a sbarrarle il passaggio. Fonfo e Dtqquo si fiondarono fuori dalla Gluteo, seguiti dallo stesso Mnaio e poi anche da Beast. La donna, quando vide quei quattro con il casco, due dei quali con una mazza da baseball tenuta minacciosamente fra le mani, rimase impietrita per il terrore, con la bocca aperta.
"Che facciamo?", le chiese Fonfo con arroganza da bulletto e cinico sarcasmo. "Portiamo a spasso i cadaveri? Hm?".
La donna non rispose. Fonfo le tirò un violento manrovescio che la sbatté di schiena contro il muro e la fece cadere a terra, dove incominciò a piangere, e poi a fare dei gesti disperati, puntando ripetutamente l'indice in direzione del giovane sulla carrozzella, facendo cenno di no con la testa e congiungendo le mani in segno di supplica. Beast si rese conto che quel giovane era un tetraplegico; e anche lui non poteva parlare; una piccola barra rivestita di gommapiuma gli passava sotto il mento e serviva a sorreggergli il capo; che ci fosse una vita in quel corpo, lo si capiva unicamente dal respiro e dagli occhi. Occhi che in quei terribili momenti esprimevano angoscia, sgomento, paura, impotenza. I tre amici, incuriositi dal fatto che Beast osservasse con una certa attenzione quella persona sulla carrozzella, distolsero gli sguardi dalla donna che gemeva, ancora in terra, e gli si avvicinarono. Totalmente paralizzato, impossibilitato a difendersi: era il loro bersaglio ideale. Accostarono le visiere a quel volto atterrito, ne esaminarono gli occhi sgranati e il tremolio delle labbra, - quindi scoppiarono a ridere.
"Hai paura, mostro?".
Dtqquo propose di spaccargli la testa e poi di violentare a turno la sua accompagnatrice muta (forse sua sorella, magari la sua compagna). Mnaio, tutto esaltato dall'idea, corse a immobilizzarla. Fonfo, con la mazza da baseball fra le mani, fece mezzo passo indietro e misurò bene la distanza tra sé e il punto del cranio da colpire. Stava per procedere, ma:
"Aspetta", gli disse Beast, con calma, "lascia che sia io il primo".
Per Fonfo non cambiava nulla, così , indietreggiando ancora di un passo, cedette la mazza a Beast, che prese il suo posto. La persona in carrozzella era ora di profilo rispetto al punto di osservazione di Beast, il quale, a sua volta, aveva alle spalle Fonfo, a neanche un metro di distanza. Molto lentamente, Beast prese anche lui le misure, poi, tenendo la mazza con due mani, se la portò sopra la spalla destra, pronto a farla partire. A questo punto si voltò e diede un'occhiata a Fonfo, che gli fece un cenno d'assenso.
Beast tornò a guardare davanti a sé, strinse forte l'impugnatura della mazza, la sollevò un po' verso l'alto per darsi lo slancio, le sue braccia si mossero e, in men che non si dica, quella pesante clava prese a fendere l'aria con una velocità eccezionale. Nessuno ebbe il tempo di stupirsi vedendola passare ben al di sopra della testa del giovane uomo in carrozzella, perché Beast le aveva già fatto compiere i 360 gradi del giro completo, portandola ad impattare violentemente contro la parte laterale del casco che indossava Fonfo, il quale non riuscì a evitarla e stramazzò sull'asfalto.
Mnaio, alle spalle della donna che teneva stretta per le braccia, lasciò lentamente la presa; Dtqquo rimase fermo al suo posto senza spiccicar parola, osservando Fonfo steso al suolo, esanime, con la gamba sinistra in preda a un anomalo tremore. Inizialmente incapaci di comprendere se si fosse trattato di un errore di Beast, che rimaneva indifferente a fissare i suoi spunterbi, o se ci fosse stata da parte sua l'intenzionalità di compiere quel gesto, i due si avvicinarono esitanti al loro amico, lanciando occhiate fugaci agli altri protagonisti della scena; si accosciarono, gli levarono il casco ammaccato e crepato e osservarono per qualche istante quel viso terreo e tumefatto; poi cercarono invano di farlo rinvenire, chiamandolo e dandogli dei buffetti sulle guance.
"Ma... è grave", balbettò Mnaio, "bisogna portarlo all'ospedale", soggiunse allarmato.
"Che strano", gli rispose serafico Beast. "Eppure aveva il casco".
Mnaio e Dtqquo si guardarono reciprocamente, poi si rivolsero a Beast ed esplosero.
"Sta male!", gli gridò Mnaio. "Ti sembra questo il momento di scherzare?".
"Potresti averlo ammazzato!", gli urlò a sua volta Dtqquo.
"Era già morto cerebralmente da parecchio tempo: come voi, del resto", affermò Beast, con un tono di voce insinuante. "State tranquilli", proseguì , lentamente, "il mondo non ne sentirà certo la mancanza. E poi, per fortuna, siamo tutti condannati a morte".
Al suono di queste parole, Dtqquo, fuori di sé, raccolse da terra la sua mazza, scattò in piedi e, brandendola, fece per avventarsi contro Beast; ma, fatto che ebbe un passo, dal buio saltò fuori Barry che, con ferocia, gli morse il polso della mano che impugnava l'arma, e lo fece con una violenza e una forza tali da staccargli del tutto la mano, che cadde a terra in una pozza di sangue, assieme al robusto bastone. Dtqquo osservò atterrito l'estremità del suo moncherino, da cui zampillavano i primi fiotti di sangue. Barry, che si era portato al fianco di Beast, ringhiava minaccioso.
A questo punto, vista l'aria che tirava, Mnaio corse da Dtqquo, che per il gran dolore non riusciva nemmeno a urlare, e gli fece cenno di salire in macchina; poi, a fatica, sollevò da terra Fonfo, lo trascinò per qualche metro e lo distese sul sedile posteriore dell'auto. Zitto, tornò a raccogliere la mano del suo amico, quindi, con movimenti rapidi, senza guardare Beast, si mise al volante. La ragazza muta corse ad abbracciare il giovane tetraplegico che accompagnava, guatò per un istante Beast con un sentimento di gratitudine misto a timore e si allontanò di tutta fretta spingendo la carrozzella.
Quando l'auto dei tre amici partì sgommando, Beast la seguì con lo sguardo; poi si chinò, piegò a terra un ginocchio, tenendo l'altro in avanti; sollevò la cerniera lampo che partiva dall'orlo dei suoi jeans, fino a scoprire un piccolo congegno simile a un orologio da polso, allacciato poco sopra la caviglia. Su questo dispositivo, direttamente collegato all'oggetto che Beast aveva precedentemente piazzato sotto il sedile dell'auto, vi erano un display e due pulsanti. Beast ne premette uno, e la Gluteo esplose, divorata dalle fiamme.
Intanto, in un ufficio della Centrale delle Forze di Protezione:
"Bene, bene, vediamo un po' di chi sono questo passaporto e questo salvacondotto... Hm!... Condurango Dos Santos Olvidados... Quanti cazzi di nomi hai?... Sexo masculino: che sei, ricchione? Come ti chiami?".
"Victoria".
Il conestabile di primo grado di quel distaccamento delle FDP sorrise e puntò il faretto in direzione del volto della vittima di quella notte. Poi lesse a voce alta qualche parola del rapporto che la riguardava:
"Schiamazzi nella pubblica via, resistenza agli ufficiali dell'ordine, oltraggio ai medesimi, ginocchio sanguinante, minacce e insulti a cittadini onesti, oscenità, abiti succinti, offesa alla morale, deviazione mentale certa, soggetto irrecuperabile e da isolare. Che cazzo hai combinato, Vittorio?".
"Iu nienti. Iu stava lì , come tutte sere, e loro hanno sputato in mio bracio e hanno tirato sasso in mia gamba e loro dire che iu...".
Victoria fu interrotta da un violento manrovescio al viso che la fece quasi cadere dalla seggiola.
"Sempre così , voi!", urlò il conestabile rabbiosamente, riversando su Victoria tutto il suo odio e il suo disprezzo. "Non avete fatto nulla! La colpa è degli altri!", e, afferrata con violenza la sua vittima per i capelli, le disse: "Ma io non ci casco! So come stanno le cose, so che quelli come te sono frutti marci che vivono nel peccato e minacciano i cittadini perbene!".
Victoria gemeva, supplicando il grasso conestabile di lasciare la sua presa. Quando questi lo fece, lei cominciò a singhiozzare.
"Parliamoci chiaro, signorina Dos Santos Olvidados ecc.", riprese con il suo interrogatorio l'aguzzino, "non raccontarmi balle, o il culo te lo apro io con i miei metodi raffinati".
In quel momento entrò un altro militare, un sovrintendente tutto trafelato.
"Capo! Capo!", esclamò. "Una macchina è saltata in aria: tre morti. Le perizie preliminari dicono che è stato un ordigno ad alto potenziale collegato a un dispositivo a distanza".
"E chi sono 'sti morti?", domandò il conestabile, annoiato e infastidito.
"Carbonizzati, capo. Irriconoscibili".
"C'è qualche pista?".
"Nessuna, capo".
"Va bene. Vattene, Stigazzi, e lasciami lavorare in pace".
Mancava ormai poco allo spuntare delle prime luci del giorno. Il conestabile pensava che era giunta l'ora di stringere i tempi, anche perché il suo turno stava per terminare. Si rivolse a Victoria e le disse:
"Hai sentito? Qui, nella Merdopoli, in questa Corte dei Miracoli, ne succedono sempre di tutti i colori. Si dice che quelli di noi che finiscono qua sono dei coglioni, ma io li vorrei vedere quelli del Centro o della B al nostro posto, vorrei proprio vedere che riuscirebbero a combinare in questo inferno. Siamo noi che abbiamo da insegnare a quei signorini, altro che storie", e interruppe questo blando sfogo per accendersi un sigaro. Victoria continuava a fissare il pavimento, snervata e spenta. Il suo persecutore guardò l'orologio: era tardi, doveva sbrigarsi, farla sentire in colpa e approfittarne. "Torniamo a noi", le disse in tono vagamente minaccioso. "Lo sai che c'è la galera per quello che hai fatto, hm?".
Si stava divertendo, seguitava a minacciarla per porre in risalto la propria superiorità nei confronti di quello che considerava un sottoprodotto umano, torturandola moralmente e umiliandola, tirando in ballo la sua condizione. Dal canto suo, Victoria, quando sentì pronunciare quelle ultime parole in cui si faceva riferimento alla galera, ebbe come un sobbalzo e tornò a incrociare lo sguardo duro e perfido del conestabile.
"Ti pregu, capitano", lo supplicò disperata, "no mi rovinarmi. Iu tengo già tanti problemi...".
Quello che lei chiamava capitano, si abbassò i calzoni e glielo mise davanti alla sua bella bocca. Victoria si inginocchiò, ancora con le lacrime agli occhi, lo sfiorò con le sue mani tremanti, poi le sue labbra e la sua lingua fecero il resto.
"E ora sparisci", bofonchiò appagato il conestabile, mezzo spaparacchiato sulla scrivania.
Victoria, incredula, raccolse da terra la sua borsetta, vi infilò dentro sandali e passaporto, poi, voltandosi di continuo, sgattaiolò da quella stanza e cominciò a percorrere scalza e a capo chino un lungo corridoio grigio. Uscita all'aria aperta, notò che il colore del cielo non era più nero, come di notte, ma blu, di quel blu tipico dell'alba che sta per cedere il passo all'aurora: il giorno era ormai alle porte. Victoria sentì un brivido di freddo, poi, rapida, prese a discendere la scalinata dell'edificio in cui aveva passato quasi tutta la nottata. Non c'era nessuno per le strade; camminò ancora per un po', senza riuscire ad orientarsi, senza sapere da che parte si trovasse la sua piccola casa, poi svoltò in una strada laterale, vi fece qualche passo e, sfinita, confusa, per non crollare a terra, appoggiò le spalle nude a un muro. Levati gli occhi al cielo, cominciò ad ansimare e disse sottovoce:
"Mio Dio: dove sei, tu?".
A questo punto, per tutto il viso le corse un tremito, e proruppe in un pianto dirotto.
Le lacrime le offuscavano la vista e le impedivano di distinguere le forme e i colori davanti a sé. Così , quando notò la sagoma scura di una persona che sembrava osservarla da vicino, non capì chi fosse né cosa stesse facendo, lì , ferma accanto a lei. Del resto, in quei momenti non poteva importargliene nulla di saperlo; facendo perno su una spalla, voltò la schiena a quella persona, dandole a intendere che voleva essere lasciata in pace. Adesso poggiava al muro il fianco e la tempia.
"Qua vicino, qualcuno deve avere appena sfornato il pane", le disse con estrema dolcezza una voce maschile. "Senti questa fragranza? Seguiamola e andiamo a fare colazione".
Victoria si voltò lentamente verso quella persona e fece per asciugarsi gli occhi col dorso della mano, ma chi le aveva parlato la anticipò e, delicatamente, prese a detergerle con un fazzoletto le lacrime dagli angoli degli occhi e dalle guance. La nostra amica si trovò di fronte a un bel ragazzo dai capelli neri e dal sorriso che ispirava fiducia; il suo sguardo, anche nei momenti di relativa rilassatezza come quello, aveva sempre un che di profondo, di magnetico, e gli conferiva un'espressione sempre viva e penetrante, indizio, questo, di una sagacia e di una saggezza quasi animalesche. Insomma, per farla breve, era Beast.
"Chi sei?", gli domandò Victoria. "Iu no ti conoscere. Cosa volere tu da me?".
"Tenerti compagnia per un po', se ti va".
"Una ora, quarenta neuro".
Beast si mise a ridere. Victoria lo guardò cercando di decifrare quel riso, che le causò una certa inquietudine, abituata com'era a vedere negli affari solo bianco o nero, ma anche ad aspettarsi tutte le notti l'immancabile balordo sempre pronto a farle del male. Le istintive congetture di Victoria ebbero termine quando l'attraente viso di Beast ritornò a farsi serio, pur mantenendo quell'amabile e serena espressione con la quale intendeva infonderle coraggio e comunicarle lealtà.
"Fai bene a non fidarti degli esseri umani", le disse, "ma non perdere mai la speranza di incontrarne qualcuno che sappia esserti vicino disinteressatamente, anche solo per una ora. Non favorire l'opera di ghettizzazione nei tuoi confronti da parte del sistema".
"Tu no sai mia situasione", gli rispose Victoria a mezza voce. "Quandu iu uscire dalla casa mia, iu vedere tutta gente che mi guarda con odio e dispresso. Tu no sai quantu brutto è vedere la gente che gli facio eschifo: la gente di giorno tratta me come una malattia, di notte come una cosa".
"Lo so. Ma per me sei una persona che vale moltissimo: la tua resistenza ha un che di sacro, di monumentale. Ora, però, basta chiacchiere: quel pane caldo ci sta aspettando".
Un piccolo panino croccante e una brioche alla confettura di albicocca furono sufficienti per far riaffiorare un timido sorriso sulle turgide labbra di Victoria; sul suo dolce volto, tuttavia, erano ben visibili i segni di una stanchezza non solo fisica.
"Come ti senti, ora che ti sei rifocillata, hm?", le sorrise Beast.
"Meglio. Grazie di mi chiedermi questa cosa -come sto- che nessuno mai chiede a me".
"Che coglioni con 'sto vittimismo!".
Victoria abbassò lo sguardo e rise fiaccamente. Poi tornò ad incrociare il volto di Beast con i suoi splendidi occhi e, dopo avergli fatto presente che aveva un estremo bisogno di dormire, gli chiese con una punta d'imbarazzo se fosse stato disponibile ad accompagnarla fino a casa. Beast accettò volentieri di farle questo favore, e così i due si incamminarono per quelle strade ancora deserte. Dopo pochi passi, Victoria volle tenere sottobraccio quel ragazzo gentile, il quale naturalmente acconsentì ; quindi, forse per la stanchezza o xe2x80x93più probabilmente- per il desiderio di stabilire un altro contatto, Victoria appoggiò la guancia al suo poderoso bicipite. Beast sapeva che Victoria in quei momenti si sentiva bene e ciò lo allietava; sapeva che lei, prima di addormentarsi, avrebbe potuto fare affidamento sulla dolcezza di quei minuti, in grado forse di attenuare il penoso ricordo delle sevizie subite quella notte, di farlo passare in secondo piano. Sia lui che lei rimasero in silenzio durante tutto il tragitto. D'un tratto, rischiando quasi di fargli uno sgambetto, Victoria si piazzò davanti a Beast, ne arrestò i passi e gli indicò il casamento poco distante nel quale si trovava la sua abitazione. Si trattava di un edificio che aveva un assai poco rassicurante aspetto di abbandono, un po' come tutti quelli della Merdopoli; l'intonaco della muratura esterna, evidentemente mai rinnovato, era stato scrostato qua e là dalle intemperie e dagli insulti del tempo, tantoché erano ben visibili su quelle decrepite superfici ampie macchie grigie, entro le quali s'intravvedevano la disposizione dei mattoni, nonché profonde crepe.
I due entrarono nell'androne di quel condominio, poi salirono una rampa di scale e si trovarono sul pianerottolo del primo piano; lì Victoria indicò a Beast la porta di casa sua. Era un piccolo monolocale dai muri ingialliti, un vero e proprio tugurio in cui tutto sapeva di mucido, nonostante Victoria avesse collocato sopra una mensola una boccettina aperta contenente essenze aromatiche. Il letto occupava una buona parte di quella stanza, tenuta comunque in buon ordine. In un angolo, un tramezzo di metallo isolava i servizi igienici dal resto dell'ambiente. Vicino all'unica finestra, v'era una rientranza nella parete, con un paio di ripiani dov'erano sistemati una pentola, due piatti, una tazzina da caffè e qualche posata; sotto di essi, poco più in basso, un lavello. Come in tutti gli appartamenti della Merdopoli, non c'era alcuna telecamera fissa: la telecamera era una prerogativa delle case della zona B, dove vivevano quei cittadini che avevano ancora qualcosa da perdere.
Beast sedette sulla sedia accanto al piccolo mobile che faceva da toletta, mentre Victoria iniziò lentamente a spogliarsi, per poi andare sotto la doccia. Uscitane gocciolante, indossò un accappatoio e, infreddolita, rimase a guardare il suo amico, tenendo le braccia conserte.
Asciugatasi anche i capelli, entrò in un largo e soffice maglione che le arrivava fino alle ginocchia, poi si infilò sotto le coltri del suo letto e, con il gomito appoggiato sul cuscino, seguitò a osservare Beast in silenzio. Dopo qualche attimo, disse:
"Tu no vuole restare no a fare me compagnia?".
"Non posso, Victoria".
"E alora tu torna altra volta e iu ti preparare piatto di mio paese".
Beast sorrise, annuì e andò a sedersi sul letto. Victoria si fece da parte, appoggiò la testa sul cuscino e, istintivamente, fece come per offrirsi. Languida, protese le braccia verso il volto di Beast, il quale, a sua volta, dolcemente, le afferrò i polsi, facendole appoggiare gli avambracci sul cuscino, ai lati del capo, mentre col torace avvertiva le morbide rotondità del seno di lei, di lei che lo guardava fisso negli occhi, con bramosia, sì , ma anche con un certo stupore. Allora lui le diede un bacio meraviglioso, prolungato, tenero ed impetuoso al tempo stesso, un bacio vero, che nessuno mai le aveva dato...
Quando si rimise all'impiedi, la guardò ancora una volta; si era rannicchiata sul fianco, e gli occhi le si erano arrossati; quasi in silenzio, iniziò a piangere per la felicità.
"Riposati, adesso".
"", gli rispose Victoria, con la voce rotta da impercettibili singulti, "sì , iu adessou dormire per dimenticare tuti miei problemi. Iu sogno te".
Beast la guardò ancora, poi uscì . Victoria si addormentò serenamente.

"


Barbara Shase pubblicato il 12.02.2007 [Testo]


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